7.8.10

Il lutto per Ho Chi Minh a Palermo. Un pomeriggio con Jimmy Lo Verso e Franco Padrut.


Il 2 settembre del 1969 morì Ho Chi Minh. Il giorno dopo ero a Palermo. Dissi ai miei che andavo per iscrivermi all’Università, ma speravo che si organizzasse qualcosa. Alle 11 avevo finito le pratiche burocratiche. Dei compagni del mio piccolo giro credo non ci fosse nessuno. Pippo stava al mare con la sua bionda ragazza da qualche parte in provincia. Peppino raramente si allontanava da Cinisi. Carmela era già per me qualcos’altro che una compagna: mi ero dichiarato per telefono e mi aveva provvisoriamente detto no. Comunque stava a Caltanissetta, probabilmente in campagna a santo Spirito, ove da sempre villeggiava con la nonna e gli zii, irraggiungibile anche per telefono. Avevo trovato chiusa anche la bottega del corniciaio, il cui retro fungeva da sala riunioni per la nostra setta maoista. Non vidi in giro avvisi di manifestazioni degli altri gruppi extraparlamentari.
Tornai al centro, al Politeama, deciso a mangiare qualcosa in una frequentata tavola calda di Piazza Castelnuovo: credo che il titolare facesse di cognome Stancampiano come quello della più rinomata pizzeria Bellini. Fu in quella piazza che incontrai Jimmy Lo Verso.
Lo avevo conosciuto nel marzo del 68, durante la prima occupazione della facoltà che durò solo due giorni. Jimmy era di destra, del Fuan mi pare; ma in quella prima confusa lotta la discriminante antifascista non s’era ancora posta come invalicabile. I giovani di estrema destra – a Lettere erano una esigua minoranza, ma veniva qualcuno da Legge a spalleggiarli - intervenivano in assemblea senza grandi ostacoli. Qualcuno dall'uditorio, durante i loro discorsi, rumoreggiava, ma qualcun altro diceva: “Tutti hanno il diritto di parlare, è la democrazia”. Il più facondo, tal Fregalà o Fragalà, con concioni piene di contumelie verso il “sistema”, otteneva qualche applauso al di là della sua piccola congrega di camerati. Nei corridoi con i fascisti parlavamo, ma solo per attaccarne le convinzioni e le pratiche.
Nell’occupazione del 1969 Jimmy si era spostato a sinistra. Faceva gruppetto con gli psicologi, allievi di Canziani: l’acuto Franco Di Maria, già laureato e comunista ortodosso, la bella, dolce e occhialuta Annetta Scialabba e, più defilata, la cara Annele (Anna Rachele) Battaglia, figlia di un ambasciatore, piccolina di fisico ma di grande intelligenza e sensibilità. Credo che sia stata Annetta a fare scoprire ai più tra noi le canzoni di De Andrè. Divennero, insieme ai canti politici e sociali diffusi dai “Dischi del sole”, la colonna sonora dell’occupazione. Le cantavamo, oltre che ascoltarle, quelle canzoni, Bocca di rosa, Via del Campo e Preghiera in gennaio, in coro: "Signori benpensanti". Qualcuno suonava la chitarra. La versatile Scialabba?
Tra gli occupanti Jimmy era il più organizzato: le notti che era di turno arrivava con il sacco a pelo, mentre i più sui divani dei baroni accademici si arrangiavano con plaid e vecchie coperte portate da casa.
Quando, quel 3 settembre, incontrai Lo Verso la prima cosa di cui si parlò era la morte dello “zio Ho”. Era un simbolo per la mia generazione e nelle manifestazioni per molto tempo ancora continuò a risuonare il suo nome, spesso lanciato all’improvviso come un grido di battaglia, con la “o” iniziale prolungata fino all’inverosimile. A Palermo, che io sapessi, non c’era nessuna iniziativa di solenne commemorazione e di ciò ero molto dispiaciuto. Ma Jimmy che bazzicava la Fgci - non so se avesse la tessera - mi disse che qualcosa in città si faceva: una piccola cerimonia nella sede del Pci, in via Caltanissetta, una traversa di via Libertà. I segretari di Federazione del Pci e del Psiup, Occhetto e Motta, avrebbero ricordato il grande rivoluzionario vietnamita. Dissi: “Vengo anch’io”. Jimmy mi propose di andare insieme e mi invitò a pranzo.
A casa sua, una ricca casa borghese al centro di Palermo, conobbi sua madre, una donna di una bellezza fuori dall’ordinario e dotata di uno speciale fascino. Il pomeriggio lessi all'amico l’articolo che volevo pubblicare su Il comunista, la rivista del gruppetto maoista cui aderivo, la Lega dei Comunisti marxisti leninisti, un lungo e noioso polpettone dal titolo emblematico: Assicurare al movimento studentesco una linea politica rivoluzionaria e una direzione marxista leninista. Fosse apprezzamento sincero o sincera cortesia Jimmy sopportò e lodò: “Fortuna che tra i maoisti ce n’è pochi come te, i più sono completamente matti”. Facemmo un pomeriggio di chiacchiere. E non mancai d’informarmi dei movimenti nell’estrema destra su cui Lo Verso, anche dopo la rottura, disponeva di informazioni, gli chiesi dei militari addestramenti, degli scontri tra missini e antisistema.
All’incontro in via Caltanissetta non c’era molta gente, era ancora periodo di mezza vacanza. I discorsi, poi, non mi piacquero. Motta non era un grande oratore, Occhetto ricorse ad una delle sue trovate ad effetto un po’ istrionesche. Quella volta oltre tutto, come gli accadeva, recitò un copione scritto da altri. Conosceva, come me e diversi altri in quella sala, il discorso di Stalin al funerale di Lenin e ne imitò pedissequamente la struttura. Naturalmente il “compagno Lenin noi ti giuriamo” divenne “compagno Ho Chi Minh noi ti giuriamo” e il giuramento non conteneva esattamente gli stessi impegni; ma il colpo di teatro funzionò soltanto con chi non ne conosceva gli antecedenti.
Nonostante la delusione quello non mi parve un pomeriggio sprecato: nella sala ritrovai una persona di quelle che con la luce del coraggio e  la forza della  concretezza, intelligenza e onestà riempiono ogni possibile vuoto. Era Franco Padrut. Non lo vedevo dal febbraio del 1967, poco prima che l’arrestassero e, poi, lo condannassero a venti mesi, per gli scontri di via Libertà, vicino alla sede di un centro di informazioni Usa, un’agenzia di copertura della Cia, neppure troppo segreta. Era accaduto dopo una manifestazione contro i bombardamenti americani sulle città del Nord Vietnam, dopo un comizio a piazza Politeama. Io non c’ero, ma è di sicuro falsa la rappresentazione di un Franco Padrut violento ed aggressore, lui sempre in prima linea nel bloccare le provocazioni e le tentazioni di ogni scontro controproducente.
Lo conoscevo, anche se non benissimo. Lo avevo incontrato nell’autunno-inverno 1966-67 in tutte le riunioni degli universitari comunisti di Palermo. Una sera era rimasto a chiacchierare a lungo con me; credo che rientrasse nel suo modo di concepire la funzione dirigente. Voleva capire che pesce fossi, voleva sondare i miei orientamenti e la mia affidabilità. Non so lui, ma io lo individuai subito come un compagno di cuore, d’intelligenza e di valore.
Sentii il suo arresto e la sua inopinata condanna come una carognata delle peggiori e come una mazzata sulla mia stessa testa. In occasione della campagna elettorale regionale del giugno, nello scrivere il testo di una canzoncina per il “giornale parlato” che diffondevamo per le vie del mio paese e di quelli vicini, non esitai, di conseguenza, a mettere il nome di Franco accanto a quello, come pochi glorioso, di Girolamo Li Causi.
Mi commossi, quel pomeriggio che onoravamo Ho Chi Minh, nel rivederlo libero, lo abbracciai, piansi – credo – qualche lacrima (qualche altra, del resto, ne sto versando adesso). Ci scambiammo poche parole, con pose un po’ teatrali. Mi disse, sorpreso di vedermi lì: “Ma non avevi fatto altre scelte politiche?”. Risposi: “Sì, ma penso che molti di quelli che sono qui, nei momenti decisivi, staranno dalla mia stessa parte”. Concluse unitario e conciliante: “Anche molti di quelli che non sono qui staranno dalla nostra stessa parte”. Il colloquio si esaurì con queste parole giacché iniziava la cerimonia. Ci perdemmo di vista. Seppi che era diventato un concreto e capace dirigente sindacale e insieme era rimasto un “comunista di destra”, come Pio La Torre. Ce ne fossero!
Lo riconobbi il pomeriggio di una domenica d’estate, in un albergo sul mare di Cefalù, un anno che facevo colà il commissario d'esami. Immagino che Padrut fosse venuto a incontrare degli amici. Credo che non mi riconobbe o, forse, non mi notò affatto. Quasi certamente non si rammenta più di me.
Eppure sarei felice se questo ricordo delle onoranze per Ho Chi Minh, di una lontana giornata in una bellissima Palermo, di una passione ideale e politica, gli giungesse attraverso la rete come attestato di una stima e di un’ammirazione che non sono cessate.

Nessun commento:

Posta un commento