Maestro, uomo di lettere, moralista, filosofo della cultura, connaisseur di idee forti, proteiforme biografo di se stesso… fra tutti gli illustri intellettuali apparsi in Francia dopo la Seconda guerra mondiale, Roland Barthes è colui che ci ha lasciato l’opera destinata, ne sono certa, a durare più a lungo. Barthes era in piena attività, pubblicava incessantemente, come faceva da oltre trent’anni, quando, all’inizio del 1980, fu investito da un furgoncino mentre si accingeva ad attraversare una strada di Parigi: una morte vissuta da amici e ammiratori come atrocemente prematura.
Ma allo sguardo retrospettivo del dolore si accompagna la particolare consapevolezza che conferisce al corpus, ampio e in costante mutazione, dei suoi scritti, come del resto a tutte le opere importanti, una completezza retroattiva. L’evoluzione dell’opera di Barthes ora sembra logica o, quel che più conta, esaustiva. L’esordio e le parole conclusive hanno addirittura lo stesso soggetto, quello strumento esemplare nel cammino di una coscienza che è il diario di uno scrittore. Il primo saggio in assoluto pubblicato da Barthes celebra, infatti, il modello di coscienza che egli rinveniva nel Journal di André Gide, e quello che sarebbe stato l’ultimo saggio pubblicato in vita è una riflessione sulla propria abitudine di tenere un diario.
La simmetria, per quanto accidentale, è del tutto appropriata, poiché la scrittura di Barthes, nonostante la prodigiosa varietà dei soggetti che affronta, ha in fondo un unico grande soggetto: la scrittura stessa.
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In quanto scrittore, preferiva le forme brevi, e progettava di dedicarvi un seminario; era particolarmente attratto da quelle in miniatura, come l’haiku e la citazione; e, al pari di ogni vero scrittore, era affascinato dal «dettaglio» (la parola è sua): la forma breve per eccellenza offerta dalla vita. Anche come saggista, Barthes preferiva la scrittura breve, e i libri che in effetti scrisse sono tendenzialmente multipli di forme brevi più che «veri» libri, itinerari di argomenti più che trattazioni unitarie. Il suo Michelet, ad esempio, giustappone l’inventario dei temi dello storico a un gran numero di brevi estratti dalla sua copiosa produzione. Il più rigoroso esempio di trattazione in forma di itinerario attraverso la citazione è S/Z, esemplare esegesi di Sarrasine di Balzac, pubblicato nel 1970. Dalla messa in scena dei testi degli altri, Barthes passò inevitabilmente alla messa in scena delle proprie idee. E nel 1975, per quella stessa collana dedicata ai grandi scrittori («Ecrivains de toujours») cui aveva contribuito con il volume su Michelet, finì per scriverne uno su se stesso: quella folgorante bizzarria che, all’interno della collana, è Barthes di Roland Barthes. L’andatura estremamente rapida dei suoi ultimi libri è segno sia di fecondità (insaziabilità e leggerezza) sia di un desiderio di sovvertire ogni tendenza alla sistematizzazione.
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La scrittura è il soggetto costante di Barthes - anzi, forse nessuno dopo Flaubert (nell’epistolario) ha riflettuto sull’essenza della scrittura in modo così brillante e appassionato come ha fatto Barthes. Buona parte dell’opera di Barthes è dedicata al ritratto della vocazione dello scrittore: a partire dai primi studi demistificatori inclusi in Miti d’oggi (1957) sullo scrittore visto dagli altri, vale a dire sullo scrittore in quanto impostore, come ad esempio Lo scrittore in vacanza, sino ai più ambiziosi saggi sugli scrittori che scrivono, vale a dire sullo scrittore in quanto eroe e martire, come ad esempio Flaubert e la frase che racconta la «sofferenza indicibile» del «lavoro dello stile». Gli splendidi saggi di Barthes sugli scrittori vanno considerati versioni diverse di un’unica grande apologia della vocazione dello scrittore.
Nonostante l’ammirazione che egli nutre per i punitivi criteri di integrità stabiliti da Flaubert, Barthes ha l’audacia di concepire la scrittura come una forma di felicità: è il succo del saggio su Voltaire («L’ultimo degli scrittori felici») e del ritratto di Fourier, imperturbato dal senso del male.
Nelle sue ultime opere, poi, egli giunge a parlare direttamente della propria pratica, dei propri scrupoli, del proprio godimento. Barthes fa della scrittura una forma di coscienza idealmente complessa: un modo di essere allo stesso tempo passivi e attivi, sociali e asociali, presenti e assenti nella propria vita. La sua idea della vocazione dello scrittore esclude la reclusione ritenuta inevitabile da Flaubert e sembrerebbe negare ogni conflitto tra la necessaria interiorità dello scrittore e i piaceri della mondanità.
È, per così dire, un Flaubert fortemente corretto da Gide: un rigore più educato e disinvolto, un rapporto con le idee avido e scaltro, che esclude il fanatismo. In effetti, l’autoritratto ideale - il ritratto dell’io in quanto scrittore - che Barthes tratteggia nel corso di tutta la sua opera è sostanzialmente completo nel suo primo saggio, sull’«opera egoista» di Gide, il Journal.
Gide gli fornì un modello nobile di scrittore duttile, multiplo; mai stridente o volgarmente indignato; generoso, ma anche opportunamente egoista; incapace di lasciarsi influenzare in profondità. Barthes nota come Gide sia stato poco modificato dalle sue vaste letture («furono altrettanti riconoscimenti di se stesso»), e come le sue «scoperte» non siano mai state dei «rinnegamenti». E loda la profusione degli scrupoli di Gide, osservando che la sua «situazione […]all’incrocio di grandi correnti contraddittorie non ha nulla di facile». Barthes condivide inoltre l’idea gidiana di una scrittura elusiva, disposta a restare ai margini. Anche il suo rapporto con la politica richiama alla mente quello di Gide: la propensione, in tempi di mobilitazione ideologica, a prendere le giuste posizioni, a essere politico - ma non fino in fondo: e perciò, forse, a dire la verità che quasi nessuno dice.
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Buona parte dell’opera di Barthes è consacrata al repertorio del piacere - «la grande avventura del desiderio», come egli stesso la definisce nel saggio sulla Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin. Cogliendo un modello di felicità in ogni cosa che esamina, egli assimila la stessa pratica intellettuale alla pratica erotica. Barthes chiamava desiderio la vita della mente, e si preoccupava di difendere «la pluralità del desiderio».
Il senso per lui non è mai monogamo. Il suo sapere gioioso, la sua gaia scienza offrono l’ideale di una coscienza libera, avida e tuttavia soddisfatta; di una condizione in cui non si deve scegliere tra bene e male, vero e falso, in cui le giustificazioni non sono necessarie. I testi e le imprese che lo attiravano erano tendenzialmente quelli in cui poteva leggere una sfida a tali antitesi. In questi termini, ad esempio, concepisce la moda: come una sfera, simile a quella dell’eros, dove i contrari non esistono («La Moda cerca delle equivalenze, delle validità, non delle verità»); dove è permesso l’appagamento; dove il senso, e il piacere, abbondano.
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Barthes è l’ultimo importante prosecutore del grande progetto letterario nazionale inaugurato da Montaigne: l’io come vocazione, la vita come lettura dell’io. Questa impresa fa dell’io il luogo di ogni possibilità, un io avido, che non teme le contraddizioni (niente deve essere perduto, tutto può essere guadagnato), e fa dell’esercizio della coscienza lo scopo più alto della vita, perché solo divenendo pienamente coscienti si può essere liberi. La tradizione utopica specificamente francese sta proprio in questa visione della realtà ritrovata, redenta, trascesa dalla coscienza; una visione della vita della mente come vita di desiderio, di piena intelligenza e piacere - una tradizione molto diversa, ad esempio, da quella di profonda serietà morale tipica della letteratura tedesca o russa. Era inevitabile che l’opera di Barthes si concludesse con l’autobiografia.
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La voce di Barthes si faceva sempre più intima, i suoi soggetti sempre più interiori. L’affermazione della propria idiosincrasia (che egli non «decifra») è il tema principale di Barthes di Roland Barthes. Egli scrive del corpo, del gusto, dell’amore; della solitudine; della desolazione erotica; e alla fine della morte, o meglio del desiderio e della morte: i temi gemelli del libro sulla fotografia. Come nei dialoghi platonici, il pensatore (scrittore, lettore, professore) e l’amante - le due grandi figure dell’io barthesiano - sono congiunti. Barthes, naturalmente, dà alla propria erotica della letteratura un senso più letterale, il più letterale possibile. (Il testo penetra, riempie, concede l’euforia.) Ma ciononostante resta fortemente platonico.
Il monologo di Frammenti di un discorso amoroso, chiaramente ispirato da una delusione d’amore, si conclude con una visione spirituale di classico stampo platonico, in cui gli amori inferiori si trasmutano in amori più alti e inclusivi. Barthes confessa che non vuole «più smascherare, non più interpretare, ma della coscienza stessa fare una droga, e attraverso essa accedere alla visione netta del reale, al grande sogno nitido, all’amore profetico». (trad. di Paolo Dilonardo)
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