4.9.10

Ci salveranno Cechov e Tolstoj (di Guido Ceronetti)


Il 3 gennaio ultimo scorso, come viatico per l’anno nuovo, sotto il titolo 2010: ci salveranno Cechov e Tolstoj “La Stampa” di Torino proponeva un articolo di Guido Ceronetti che leggeva i due grandi russi sotto il segno di Schopenauer. Articolo breve e intenso, lettura originale, scrittura perspicua. Credo che sia utile riproporlo. (S.L.L.)


Per il Duemiladieci, due date fauste. Per la vita e la strenua, da tenere per le gavigne, sopravvivenza del pensiero, introduciamoci nel ricordo di due formidabili consolatori del genere umano. La prima data, poco dopo il giro d’anno: centocinquantanni dalla nascita, il 17 gennaio 1860, di Anton Pavlovic Cechov; la seconda, cento anni dalla morte di Lev Nicolaevic Tolstoj, il 7 novembre 1910. Gloria a loro, figli della più fraterna Russie éternelle, e non perdiamo la mirabile occasione per riviverne qualcosa. Ripercorrerne la traiettoria di cometa, e nella bisettrice stregata del loro mondo interiore pensare che è a spiriti di questa apertura e forza che dobbiamo le rare tregue di riscatto dalla miseria e dal male fondamentale dell’esistenza, i rari istanti in cui ci imbattiamo come per caso grazie a una indicibile serata a teatro, alla lettura di un romanzo o di un libro di memorie.

Non per nulla raggiava sull’epoca la luce soffusa dei lampioni a gas della filosofia di Arthur Schopenhauer, che avvolse di penombra refrattaria a ogni violenza entrambi: e Schopenhauer è paralume di metafisica dolente, è tenda di rifugio di tutta l’Arte, di tutti gli artisti, degli strateghi del teatro, dei Napoleoni ad Austerlitz scoronati e battuti alla Beresina, dei saltimbanchi tristi ed eroici, dei bodhisattvas sparsi e falliti, vittime della propria generosità e compassione, dei registi del Teatro d’Arte di Mosca, dei pittori alla Böcklin e alla Roerich, dei musici che compongono le note di lutto per l’Infanta o del Pomeriggio di un fauno - e dei Cézanne, dei Zola...

Ogni messinscena cechoviana richiede di ripercorrerlo, dramma per dramma, tutto. Cechov è un bodhisattva sofferente, in incognito, che ha il successo del penare per tutti, e col suo soffio lascia dietro di sé uno stuolo di presenze e di vibrazioni nirvaniche, mentre il suo realismo, il suo aderire ai luoghi, al tempo, al vivente, all’istante transitivo, sono tributi di mera apparenza. Gli va ridato il segreto che fu suo proprio: portare in scena l’invisibile, il legame silenzioso, come di slitta sulla neve, col trascendente. Bisogna iscrivere tra i suoi personaggi anche la corda che si spezza e i colpi di scure che abbattono i ciliegi che compaiono solitari alla fine del Giardino, i singhiozzi di Maša Prozorova e il «Riposeremo, zio Vanja, riposeremo» di Sonja Aleksandrovna, il «qualcuno che sembra pianga» nel teatrino vuoto in giardino nel Gabbiano, gli accenni di balalàika - la presenza in scena di tutto quel che ne è, didascalicamente, tenuto fuori. Si possono vedere i sei drammi principali di Cechov come l’unità profonda di una esalogìa - un unico dramma in tristitia hilarus, pendolo mobile sui crateri della condizione umana. Le prossime regìe russe ed europee, invece di tendere principalmente a violentare il testo, potrebbero, chissà, tener conto di questo: l’unità musicale di tutta l’esalogia cechoviana.

Lo schopenaurismo tolstoiano è ben rappresentato, biograficamente, dalle sue fughe mentali di vecchiaia, di sempre, fino all’ultima, la finalmente compiuta, allorché il treno lo lascerà, libero di morire, alla stazione di Ostàpovo. Schopenhauer non addita nessun futuro - Tolstoj neppure. Vuole fuggire soltanto: dal desiderio, dagli attaccamenti, dalla famiglia, dalla fama, con le irresolutezze tipiche del suo segno astrologico (Vergine, 28 agosto), da tutte le sofferenze implicite nell’illusionismo della Volontà. (Sarà, immagino sfarzosamente, celebrato nel 2010: ma non sia preso Tolstoj come palina con freccia verso il futuro).

Imbarcare sia l’uno che l’altro sulla nave del 2010 può fare rinsavire - ahimè di poco - l’odierno baccanale di impazziti e di oscurati. Non sono assumibili nella sfera globalizzatrice-crescitista-ripresista dove ci vogliono incatenare, felici, come sulle galere del re cattolico. Sono dei renitenti a questa leva di morti che camminano. Sono sorrisi della bellezza e della compassione sorti a medicare le ferite dell’umanità e della terra. Schopenhauer insegna la falsità di ogni esistere e di ogni consistere reale: e per solo scampo da questa voragine, che come il sole non può essere guardata direttamente in faccia, ci confida le arti magistrali del Teatro, e gli urti immani delle grandi armate di Guerra e Pace, la passione di Anna Karenina, il canto dei deportati di Resurrezione.

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