25.9.10

Napoli 1817. Stendhal e il lavoro pietrificato.

Napoli. 13 gennaio.
Entrando, la stessa sensazione di rispetto e di gioia. Questa sala, ricostruita in 300 giorni, è come un colpo di stato. Essa garantisce al re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare; e Napoli è ubriaca di patriottismo. Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovarvi un difetto. Appena parlate di Ferdinando: ha ricostruito il San Carlo, vi dicono, tanto semplice è l’arte di farsi amare dal popolo. C’è una fibra adorativa nell’uomo: io stesso quando penso alla meschinità e alla povertà bacchettona delle repubbliche ho conosciuto mi trovo realista per la pelle.
23 gennaio.
Ho dimenticato di raccontare il panico che ha preso le signore, la sera del 12. Verso la quinta o la sesta scena della cantata, si comincia a notare che un fumo nero sta invadendo adagio adagio la sala. Il fumo aumenta. Verso le nove, i miei occhi si posano per caso sulla duchessa del C, nostra vicina di palco: è pallida come un cencio, si protende verso di me, mi dice con un sublime accento di terrore: “Ah, santissima madonna (in italiano nel testo), il teatro è in fiamme! La stessa gente che ha fallito il colpo la prima volta ora torna daccapo: che avverrà di noi?”. Com’era bella in quel momento. Gli occhi, soprattutto, erano stupendi. “Signora - le dico – se non avete niente di meglio che un amico di due giorni, accettate il mio braccio”. Subito pensai all’incendio Schwarzenberg. Pur continuando a parlarle, ricordo che cominciavo ad essere preoccupato: più per lei, in verità, che per me. Eravamo al terzo ordine di palchi, e la scala maledettamente ripida, e fra poco tutto il pubblico vi si sarebbe riversato. Mi volto verso i miei compagni di palco, dei viaggiatori inglesi: guardano il fumo impassibili come statue di legno. Sono tanto assorto nel pensiero di come metterci in salvo, che passano due o tre secondi prima che mi metta ad annusare l’odore del fumo. “E’ nebbia, non fumo” – dico alla mia bella vicina. Il calore di tutta questa folla sta asciugando la sala ancora umida”. Ho saputo poi che quest’idea, presentatasi subito alla mente di tutti, non aveva impedito ai presenti di avere una paura d’inferno. Senza i che cosa dirà la gente? e la presenza della Corte, i palchi si sarebbero vuotati in un soffio. Verso mezzanotte faccio qualche visita: le signore sono sfinite, gli occhi segnati, i nervi allo scoperto, gli animi lontani mille miglia dal piacere. Invece di godere, i miei inglesi dicevano: “Cos’è questo grande edificio? La disgrazia pietrificata?”. “No – ho risposto – lavoro pietrificato". Del resto, che cos’è in fin dei conti la disgrazia del popolo, se non di non trovare lavoro?”.

- Da Roma, Napoli e Firenze nel 1817, Bompiani

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