3.10.10

Love Story e il piacere delle lacrime.


Nel 1971 un saggio di Umberto Eco, dal titolo L’industria aristotelica, apriva l’Almanacco Bompiani del 1971 dedicato al feuilleton. Venne poi ripubblicato nel volumetto Il superuomo di massa, sempre per Bompiani, con un titolo nuovo: Le lacrime del corsaro nero.
Così si apriva: “Qualcuno, dopo la proiezione di Love Story, ha detto che bisognerebbe avere un cuore di pietra per non scoppiare a ridere di fronte ai casi di Oliver e Jenny. La battuta, come tutti i paradossi di tono wildiano, è superba. Purtroppo non rispecchia la verità. Infatti, qualunque sia la disposizione critica con cui si va a vedere Love Story, bisognerebbe avere un cuore di pietra per non commuoversi e piangere… E questo per una ragione semplicissima: che i film di questo genere sono concepiti per fare piangere. E dunque fanno piangere”.
Analisi perfetta, che rimetteva le cose a posto, contro la dissacrazione e il cinismo a buon mercato. Io trovo, tuttavia, che in Eco permanga, non esplicitato ma presente, un pregiudizio: piangere di fronte ad una bella storia sentimentale è inevitabile, ma è comunque una sorta di malattia, frutto di una debolezza della nostra umana complessione. Non ne sono convinto.
Lasciamo da parte il valore catartico delle lacrime: non è affatto detto che brucino e purifichino le nostre passioni. Certo è che sono un’espressione di vitalità e, in questi limiti, danno piacere. Io credo che valga tuttora, a questo proposito, l’estetica settecentesca del sensismo e la moderna formulazione che ne diede nel secolo successivo Leopardi. Le arti hanno come scopo, tra gli altri, la stimolazione della sensibilità. La finzione artistica produce sensazioni (e sentimenti, quando siano intellettualizzate), paura, gioia, dolore, compassione, che hanno a che vedere con nervi e ghiandole, con la nostra materiale fisicità e contribuiscono a riempire la vita. La mancanza di sensazioni è “la noia”, che è vita priva di vitalità. Del “piacere delle lacrime” da lui stesso provato dopo una lunga insensibilità, Leopardi scrive in una lettera al fratello, credo del 1823, che racconta la sua visita al sepolcro del Tasso, un vero capolavoro. Insomma, le lacrime non sono un malanno, ma una grazia del cielo.
Pure, in certi momenti storici, ci si vergogna delle lacrime e si ostenta disprezzo per letture, musiche, film che aiutano a piangere. E’ cosa, anche questa, giustificata. Soccorre anche in questo caso Umberto Eco: le sensazioni e i sentimenti stimolati dall’arte possono avere una funzione oppiacea, possono diventare “consolazione” addormentando la coscienza. Ed è inevitabile pertanto che nei punti alti di una storica “presa di coscienza” i prodotti artistici sentimentali vengano rigettati e i più tentino di corazzarsi contro le emozioni da essi indotti. Poi si scopre che non è affatto necessario e che il piangere al cinema, leggendo un libro o ascoltando una canzone, non è azione riprovevole e non attenua necessariamente la capacità di criticare le ingiustizie del mondo e di combatterle.
Love story libro arrivò nel 1969, il film (sceneggiato dall’autore) l’anno dopo e fece piangere, tra gli altri, tutti quei giovani studenti e operai che lottavano per un mondo migliore. Non attenuò affatto le loro capacità di critica e migliorò la loro capacità d’amore. E di amore nelle rivoluzioni, culturali e non solo, ne serve tanto. E’ per penuria d’amore che il più delle volte sbandano, falliscono e muoiono.
Sono queste le ragioni che mi hanno indotto a proporre qui l’elzeviro commemorativo dell’autore di Love Story, Erich Segal, che Elena Loewental ha scritto per “La stampa” del 20 gennaio di quest’anno, tre giorni dopo la morte dello scrittore. Ha come titolo Addio a Segal, amare significa piangere senza vergogna. Belli o brutti che fossero, questo insegnarono quel romanzo e quel film a tanti di noi. (S.L.L.)
Erich Segal
''Amare significa non dover mai dire mi dispiace»: per chi ha più di una certa età questo non è un pensierino buono da involucro per cioccolatini. E' ben di più: una specie di slogan generazionale. Un pozzo di ricordi e nostalgia. Domenica, questa frase ha perso il suo papà, Erich Segal, nato a Brooklyn 72 anni fa, morto d'infarto e ora sepolto nel cimitero di Golders Green's Hoop Lane a Londra. Quarant'anni fa - era il remoto 1970 - il film Love Story, basato sul suo omonimo romanzo e da lui stesso sceneggiato, non solo sbancò i botteghini, ma turbò e rappresentò al tempo stesso una generazione, con il suo carico di sentimenti. Era un film meraviglioso, strappalacrime, scontato, impietoso: una storia d'amore stroncata dalla malattia. Un incontro/scontro tra vita e morte, giovinezza e fine. Chi vide il film si buttò sul libro, con la sua sgargiante copertina. E viceversa. Nel 1970, un anno dopo l'uscita, fu il libro più venduto negli Usa. Un evento epocale per tutto l'Occidente, in un mondo in cui nessuno aveva ancora inventato la globalizzazione e l'America ci sembrava lontana. Erich Segal era figlio di un rabbino, aveva studiato il latino e la letteratura comparata, aveva insegnato a lungo al Wolfson College. Rappresenta il classico caso di autore che si identifica in un libro soltanto. O almeno questa è sempre stata l'impressione: intorno a Love Story il nulla. Il sequel che scrisse qualche anno dopo fu una specie di buco nell'acqua. E pensare che Segal è stato «non solo uno straordinario scrittore e un autore eclettico ma anche un amabile, divertente e generoso essere umano», ha scritto Ned Temko annunciandone la morte sul “Jewish Chronicle”. Saggi, romanzi, reportage, una traduzione inglese della preghiera ebraica per il venerdì sera, un dotto trattato sulla storia delle battute sconce: Segal è stato, a quanto pare, un autore prolifico e versatile, una mente curiosa aperta alle esperienze più diverse. Eppure, con beneficio di inventario delle inevitabili eulogie post mortem, per noi che abbiamo una certa, ragguardevole età, egli continuerà a essere «soltanto» l'autore di quel libro e quel film che non dimenticheremo mai, e grazie al quale abbiamo imparato a piangere al cinema, senza doverci vergognare. 

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