Oggi celebra il suo compleanno un caro compagno, coetaneo e collega di studi, Vincenzo Vasile, Vicè. L’ho conosciuto in Fgci, ma io, poi, in Fgci non rimasi, andai coi “gruppetti”, precisamente nel più piccolo e settario tra i gruppi maoisti. E tuttavia con Vicè, oltre a polemizzare in assemblea, nei collettivi e nei corridoi, continuai a ragionare anche d’altro, di film, di storia, di libri.
Credo che diventammo amici un giorno che, per fatale combinazione, io di Lettere Classiche, lui di Filosofia, ci trovammo a fare un esame insieme, Storia della Filosofia Antica, con quell’Armando Plebe che aveva già lasciato la sinistra ed era in viaggio verso la destra estrema. Ci rinviarono la prova di un giorno e ripassammo insieme i lirici greci che rientravano nel corso. Superammo entrambi brillantemente l’esame e trascorremmo insieme un festoso pomeriggio a parlare di calcio, litigando un po’.
Dopo la laurea ci perdemmo di vista, salvo un fugace saluto a un congresso siciliano del Pci, ai tempi di Occhetto. Ho continuato a seguirlo come ottimo giornalista de “l’Unità” e l’ho ritrovato compagno di viaggio su un volo da Palermo a Roma. Da qualche tempo siamo in contatto su Fb, e, di quando in quando, dialoghiamo sulla virtuale piattaforma. Vedo che scrive meno sui giornali, ma so che lavora a una cosa importante. Qualche ora fa gli ho trasmesso gli auguri.
Vincenzo, nel 2005, curò per “l’Unità” alcuni volumetti sui “misteri d’Italia”, tra cui Le foibe della mafia di Umberto Ursetta, dedicato agli omicidi dei sindacalisti Accursio Miraglia e Placido Rizzotto. Il libro contiene una bella nota scritta da Vasile. Proprio oggi mi piace offrirne una parte alla riflessione dei frequentatori di questo blog. (S.L.L.)
A Rocca Busambra, tra le montagne del Corleonese, c’è una profonda fenditura in mezzo alle rocce. Lì i mafiosi gettarono il corpo senza vita di Placido Rizzotto, sindacalista, uno che aveva imparato il socialismo senza libri, lavorando la terra. L’ammazzarono nel 1948, anno di svolta e di speranza tradite. A Rocca Busambra non c’è nessuna lapide, nessuna insegna che lo ricordi. I suoi resti sono stati abbandonati in fondo a quella immensa depressione, perché governanti e autorità giudiziarie non ritennero opportuno, troppo costoso, inutile, riesumare quel corpo, benché i familiari avessero identificato in qualche frammento riportato in superficie dagli speleologi il corpo della vittima. Non furono creduti. In fondo a quel pozzo, una foiba di cinquanta metri scavata nei millenni dalla natura, erano le prove di un delitto della mafia, e sta una parte importante della memoria dispersa del nostro Paese.
(…) Un anno prima la mafia insediata in un’altra zona della Sicilia, a Sciacca, aveva ucciso Accursio Miraglia, anch’egli un sindacalista. Era stato anarchico in gioventù a Milano, quindi era tornato in Sicilia, dopo essere stato licenziato per motivi politici della Banca presso cui lavorava, e a Sciacca aveva aperto un esercizio commerciale, era diventato rappresentante di ferraglia, aveva messo su una piccola industria per la conservazione del pesce, amministrava l’ospedale, abbracciò gli ideali comunisti, faceva parte del Comitato di Liberazione, costruì il movimento per la riforma agraria. Un “borghese” dalla parte dei lavoratori, un borghese scomodo, da eliminare. Anche il processo per l’assassinio di Accursio Miraglia si concluse con l’assoluzione degli imputati, la vicenda giudiziaria sprofondò come dentro a un pozzo oscuro.
A coltivare il ricordo di Rizzotto e Miraglia per mezzo secolo sono stati i loro compagni di lotta, il sindacato , i partiti – socialista e comunista – cui essi dedicarono, letteralmente, la loro vita. La divisione a sinistra e l’oblio, in una concatenazione di cause e di effetti che sarebbero da indagare meglio, hanno relegati questi nomi in fondo ai martirologi, ormai sterminati.
Da queste carte saltano fuori, tuttavia, tanti personaggi che diverranno tristemente famosi. Tante coincidenze. Si pensi, per esempi, che le due storie si svolgono nel giro di un anno, a un centinaio di chilometri di distanza. Eppure uno degli imputati del delitto Miraglia riesce ad apprendere in tempo reale dei sospetti che si addensano sul suo capo e accusa un provvidenziale malanno; si fa trasferire da Sciacca a Palermo; riesce a scampare all’arresto grazie al ricovero all’ospedale di Corleone, diretto dal capomafia del luogo, il medico Michele Navarra, sotto la cui ala stava crescendo intento Luciano Liggio, proprio l’uomo che sarà accusato dell’uccisione di Rizzotto. Proprio Liggio è l’iniziatore e il capo di quei “corleonesi” che egemonizzeranno negli anni Settanta la mafia siciliana. A Corleone indaga su quest’ultimo delitto e accusa Liggio, ma alla fine non viene creduto dai giudici, un giovane capitano dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Trenta e più anni dopo Dalla Chiesa convocherà alcuni cronisti di Palermo, la città in cui fu spedito senza poteri a ricoprire nel 1982 l’incarico di prefetto antimafia, e ricorderà a sorpresa proprio quegli anni, proprio quei nomi. Eravamo in una sala della Villa Withaker, sede della prefettura. Domandai in quell’occasione, senza troppi giri di frasi, al generale Dalla Chiesa come si sentisse, mandato allo sbaraglio in una Sicilia il cui establishment lo respingeva con fulminanti dichiarazioni di ostilità. Lui dapprima tacque, poi mi rispose che si sentiva come chi, salendo su un autobus affollato, dovesse farsi largo a gomitate. E disse che aveva i suoi punti di riferimento, saldi nella memoria: Placido Rizzotto, per l’appunto, e Pio La Torre. Questi era il dirigente comunista che prese la guida della battaglia contadina nel Palermitano. E poi – come Dalla Chiesa in quella improvvisata conferenza stampa senza taccuini ricordava – era stato uno dei protagonisti della Commissione parlamentare antimafia, cui lo stesso generale diede un contributo essenziale fornendo ai parlamentari i risultati delle successive indagini, anch’esse arenate, boicottate, sul gruppo di potere politico-mafioso del capoluogo. L’accordo con il generale era che per ora non se ne scrivesse sui giornali, ci saremmo rivisti; mantenemmo l’embargo, non potevamo immaginare che si trattava di una specie di testamento.
Liggio, Rizzotto, Dalla Chiesa, La Torre… C’è un unico filo. Era stato proprio La Torre a chiedere e ottenere che Dalla Chiesa tornasse a Palermo e ricevesse un incarico di coordinamento della battaglia contro la mafia. E Pio era stato massacrato dalla mafia, e lui – Dalla Chiesa – si era insediato in prefettura proprio la sera di quell’omicidio. Riparlare di Rizzotto era per Dalla Chiesa come certificare come quel conto tragico e sanguinoso rimaneva in sospeso. La memoria di quegli anni lontani poteva essere utile per riprendere i fili di una battaglia troppo spesso interrotta, troppo frequentemente archiviata. Anche Dalla Chiesa cadrà, dopo cento giorni di assedio in una prefettura inerme e accerchiata.
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