I commenti che abbiamo letto ed ascoltato sulla sconfitta del Partito democratico e di Obama nelle elezioni di medio termine la scorsa settimana ci sono sembrati assai contraddittori. Da una parte tendevano a ridimensionare la “punizione” del presidente, a presentarla quasi come una regola del sistema politico Usa. Dall’altra evidenziavano che l’ondata di destra non è esaurita e che anzi trova nuova linfa nell’“antipolitica” del cosiddetto “tea party”. Qualcuno aggiungeva che per un presidente che aspira ad essere un riformatore radicale la perdita della maggioranza alla Camera dei rappresentanti e l’indebolimento al Senato è più grave che per altri. Ne nasceva la domanda su dove andrà Obama, se tenderà ad un modus vivendi con i repubblicani che attragga i più moderati, ridimensionando ulteriormente le ambizioni riformistiche, o se, dopo qualche schermaglia iniziale, andrà avanti per la sua strada, in particolare potenziando l’intervento statale per combattere la disoccupazione. Pare, infatti, che il mancato successo delle misure anticrisi sia la ragione di fondo della debolezza di Obama: mentre i suoi avversari liberisti hanno buon gioco nella loro tradizionale campagna antitasse, i suoi sostenitori gli rimproverano le alte cifre della disoccupazione e si allontanano dalle urne per l’inefficacia delle sue politiche.
La situazione per il presidente Usa non sembra essere migliorata, dopo il suo viaggio in Asia e il vertice coreano. La visita in India (con la sua implicita curvatura anticinese) non ha dato né poteva dare risultati immediati: il fatto che in un mercato in grande espansione come quello indiano la Cina abbia sottratto agli Usa il ruolo di principale partner nei commerci è ferita bruciante che non si rimargina subito. Le decisioni di Seul, ove non c’è stata la sperata rivalutazione dello yuan, sono state lette da molti come uno schiaffo ad Obama, nelle letture più favorevoli come un modesto compromesso. Intanto già nella campagna elettorale, da parte di non pochi candidati, sia repubblicani che democratici, è montato negli Usa una sorta di allarme sul “pericolo giallo”, con spot che evidenziano sottintesi razzistici. Intanto il presidente ha dovuto rimangiarsi un’altra delle sue promesse: il ritiro dall’Afghanistan previsto per il 2011 è rinviato al 2014 e non potrà perciò costituire un punto di forza per le elezioni del 2012.
C’è un senso in tutto ciò?
L’impressione di un non-esperto è che Obama non abbia un progetto organico, ma che sia forte il rischio di una deriva militaristica: mostrare i “muscoli” potrebbe apparire al presidente la via migliore per contenere l’aggressività commerciale della Cina e, anche, per rivincere le elezioni. Dall’altra crisi, quella iniziata nel 1929, l’America non uscì con il New Deal, ma con la grande guerra, che permise di andare ben oltre lo slogan roosveltiano dei 60 milioni di occupati, ma negli anni della ricostruzione li portò a cento milioni. La storia del capitalismo imperialistico sembra del resto indicare nella guerra la più efficace politica anticrisi, se non si vogliono colpire le basi del meccanismo d’accumulazione, del modo di produzione, della distribuzione dei redditi.
Sono consapevole delle enormi potenzialità distruttive degli armamenti nel nostro tempo e credo che ne sia consapevole anche quel “complesso militare-industriale” (la felice formula è del presidente generale Eisenhower), che profondamente condiziona le scelte politiche americane. La possibilità che l’intera terra sia sottoposta a immani, tremende distruzioni rappresenta un freno anche per il Pentagono; ma il gioco della guerra si svolge sempre su un piano inclinato e quando esso si estende e si generalizza è difficile fermarlo o limitarlo. Ecco perché suggerisco molta attenzione ai piccoli smottamenti: mi pare per esempio che in Italia il movimento pacifista non colga affatto i pericoli del momento, si affidi troppo alla buona fede e alla retorica di Obama e non comprenda come a volte la logica oggettiva delle cose travolga le migliori intenzioni. Vale la pena, allora, di ricordare come ad iniziare le guerre americane più impegnative, nel Novecento, siano stati presidenti democratici e progressisti. Spero, ovviamente, che emergano in America e nel mondo forze sociali e culturali in grado di fermare le spinte belliciste, ma penso che aiuti molto la consapevolezza del pericolo.
La “scintilla che incendia la prateria” potrebbe prodursi ovunque, ma credo che il punto-chiave di una possibile crisi sia oggi l’Iran, faro dell’integralismo islamico e grande fornitore di petrolio per i cinesi. Il regime degli ayatollah è pessimo e vanno sostenute le battaglie di libertà che in Iran si combattono, ma certe campagne unilaterali favoriscono la strumentalizzazione propagandistica ed aiutano ad orientare negativamente i sentimenti popolari. Penso ad esempio al battage pubblicitario intorno alla condanna di una iraniana che potrebbe forse essere lapidata e al totale silenzio su donne che, in paesi chiamati “moderati” solo perché filoamericani, sono state effettivamente lapidate. E’ in questo clima che l’odioso Bush, presentando il suo libro, va dichiarando che non si scusa di aver fatto guerra in Iraq o in Afghanistan ingannando il popolo con false informazioni, ma si pente solo di non aver fatto bombardare l’Iran. E in tanti l’applaudono.
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