15.11.10

Quando avevamo paura dei giudici (di Livio Pepino)

Livio Pepino, "il manifesto" 21 ottobre 2010
La giustizia continua ad essere l’ossessione del presidente del Consiglio e, per questo, è diventata uno snodo fondamentale del dibattito politico, sempre più condizionato dalle vicende giudiziarie del cavaliere di Arcore. Della pericolosità e degli effetti eversivi di questa ossessione, che sta scardinando il nostro stato di diritto, si è detto ormai ripetutamente. È giunto, peraltro, il momento di allargare l’orizzonte e di provare a riflettere più in generale sulle modifiche intervenute nel sistema giustizia e nel rapporto dello stesso con gli orientamenti culturali e politici della collettività. Anche perché, un giorno (prima o poi), il presidente del Consiglio cambierà e un paese forse più normale di quello attuale si dovrà misurare laicamente con il proprio sistema giustizia.
La questione è stata posta qualche mese fa da alcuni interventi pubblicati su questo giornale nel dibattito sul «fenomeno» Saviano ma si è subito esaurita. Eppure il sasso lanciato non era di poco conto: «Ma cosa è successo alla sinistra radicale in Italia? Sono io che ho perso la bussola o sono altri che si sono dimenticati per strada un poco di concetti che ci accompagnavano nell’analisi della società? Ad esempio la magistratura, le forze dell’ordine, l’apparato repressivo dello stato sono oggi nostri alleati nella lotta contro il Capitale? Io ricordavo altre cose. Ma la legalità, le leggi cosa sono se non un sistema di regole che serve a proteggere il più forte dal più debole? Non sono promulgate dallo stesso stato che l’istante dopo accusiamo di essere classista, liberticida, guerrafondaio e repressivo? No, sembra da quello che sto leggendo oggi che sono io che mi sbaglio» (così Daniele Sepe sul manifesto il 6 giugno 2010).
C’erano una volta le controinchieste
C’è, in quella descrizione, del vero. Chi scriverà la storia del nostro paese a cavallo del terzo millennio, infatti, non potrà prescindere da un (apparente) paradosso: il capovolgimento, nell’arco di due o tre decenni, degli atteggiamenti e delle aspettative dell’opinione pubblica e delle forze politiche nei confronti della giurisdizione e della magistratura. Ancora nei primi anni Settanta il sentimento prevalente al riguardo era, in ambito progressista, la diffidenza: fiorivano «controinchieste» e contestazioni, non si disdegnavano opuscoli tesi a spiegare come difendersi da pubblici ministeri e giudici e a questi sentimenti davano voce artisti e poeti (come non ricordare memorabili racconti di Italo Calvino e graffianti canzoni di Fabrizio De Andrè?). «Paladini della giustizia» erano, per contro, i partiti e i movimenti della destra e gli slogan preferiti della maggioranza silenziosa inneggiavano non solo all’immancabile «ordine» ma anche alla «legge». In meno di trent’anni tutto sembra cambiato e, mentre la destra trova il suo principale collante nel tentativo di paralizzare la macchina giudiziaria, i temi della giustizia sono tra i pochi che mobilitano la piazza, provocano nuove forme di aggregazione a sinistra, ridanno fiato a una opposizione troppo spesso rassegnata e silente. Scavando ci si accorge che la realtà è più complessa e articolata, e tuttavia questo modello è – quantomeno – quel che appare.
Cosa è accaduto dunque? e, ancora, siamo di fronte a un fenomeno contingente o sono intervenuti cambiamenti nel profondo? La risposta dell’establishment (di destra ma anche di non piccoli settori della sinistra) è priva di dubbi: è accaduto che la magistratura si è politicizzata e si è spostata in modo massiccio a sinistra. Si tratta di affermazione circondata (forza del pensiero unico) da generale credito ma dotata di assai scarso fondamento e per taluni aspetti curiosa. Con il termine «politicizzazione», infatti, si fa in realtà riferimento al susseguirsi di interventi giudiziari che toccano settori del potere politico ed economico e all’affermarsi tra i giudici di una pluralità di orientamenti interpretativi: fenomeni che hanno a che fare, in realtà, con l’attuazione della obbligatorietà dell’azione penale e con la sottoposizione dei giudici soltanto alla legge. È questo nuovo e originale rapporto (di alterità anziché di coincidenza) tra magistratura e centri del potere che è a taluni insopportabile e che viene definito «politicizzazione». Basta saperlo. Si dice «politicizzazione», ma si intende indipendenza e «pluralismo». Non è la stessa cosa. L’affermato spostamento a sinistra della magistratura, poi, ha un che di grottesco, come sa chiunque – avvocato, segretario o cancelliere, perito, ufficiale di polizia giudiziaria, giornalista – frequenta i palazzi di giustizia. Per chi quella realtà non conosce, basta guardare agli esiti delle elezioni associative, nelle quali la maggioranza dei consensi appartiene regolarmente alle componenti della magistratura culturalmente moderate o addirittura reazionarie. Non sta qui, dunque, la ragione del mutamento di rapporto tra la sinistra e il sistema giudiziario.
Codice penale o carta dei diritti?
La nuova attenzione della sinistra per la giustizia trova la sua motivazione anche nel mutato ruolo materiale dell’intervento giudiziario nei meccanismi di funzionamento e negli equilibri del sistema politico. Il concorso della giustizia, seppur con modalità diverse dalla politica, alla tutela e promozione dei diritti sociali (in particolare nel settore civile e in quello del lavoro) è emerso in modo forte già a partire dagli anni Settanta. Ma la novità dell’ultimo scorcio del ventesimo secolo è stata l’affacciarsi anche della giustizia penale oltre i confini tradizionali del controllo della marginalità. Ho usato non a caso il termine «affacciarsi», ché di ciò solo si è trattato, ma tanto è bastato a produrre effetti di sistema imprevedibili (o comunque imprevisti).
Il cambiamento ha nel nostro paese, almeno nella percezione sociale diffusa, un nome e un inizio: Tangentopoli e il febbraio 1992 (data dell’arresto, a Milano, del «mariuolo» Mario Chiesa). L’emergere di una corruzione diffusa in tutti i settori della pubblica amministrazione, dotata di una sistematicità codificata, spesso condivisa dalle forze di opposizione e dagli organi di controllo, esteso alla economia (pubblica e privata) oltre che alla politica si è accompagnata, infatti, alla scoperta che essa ha prodotto non solo arricchimenti e finanziamenti illeciti di proporzioni impensate ma anche il condizionamento e lo stravolgimento delle regole economiche e della dialettica democratica. Di qui l’assunzione di fatto da parte della giustizia penale di un ruolo di garante del diritto dei cittadini alla legalità nei confronti dei poteri forti, sia privati che pubblici, e di strumento di controllo dell’esercizio di tali poteri.
C’è, poi, un’altra ragione che spiega il ribaltamento di posizioni di cui stiamo parlando. È una ragione connessa con il processo di trasformazione del sistema istituzionale in senso plebiscitario, di massiccia concentrazione di potere economico e politico, di progressiva regressione del nostro stato di diritto in stato patrimoniale. Il nucleo forte di questo processo sta nel perseguimento della onnipotenza della maggioranza e nella configurazione del suo capo come rappresentante esclusivo del popolo. In tale impostazione il voto esaurisce la democrazia e i luoghi del confronto e della mediazione (a cominciare dal parlamento) vengono emarginati e sostituiti dal rapporto diretto del capo del governo (sempre più capo tout court) con l’opinione pubblica e il paese. Di più. Il dissenso sociale e politico, tradizionale fattore di stimolo per qualunque maggioranza, viene trasformato in elemento di disturbo e poi in attività contraria agli interessi del paese e finanche in anticamera del terrorismo. Così la piazza (l’antica agorà, cuore della democrazia) diventa sinonimo di violenza: non più fonte (insieme con il voto) di legittimazione democratica ma avversario da criminalizzare e da reprimere. In questo contesto, capovolgendo l’impostazione dell’articolo 1 della Costituzione le regole e i limiti diventano impacci, contrastanti con l’investitura popolare e, dunque, antidemocratici.
Orbene, in questo contesto, la giustizia in quanto tale, a prescindere dai suoi standard qualitativi e quantitativi, diventa uno dei luoghi di resistenza contro le derive autoritarie del sistema e la magistratura diventa a sua volta, a prescindere dalle idee e dalle scelte dei singoli magistrati, un ostacolo alla realizzazione del disegno di riassetto del potere. Con conseguente esposizione a ossessivi tentativi di normalizzazione e di neutralizzazione: delegittimando l’ordine giudiziario, gettando fango sui giudici, accusandoli di politicizzazione, di disonestà professionale, di partigianeria, di eversione ogni volta che indagano su esponenti del mondo politico, in una sorta di attacco preventivo alla giurisdizione, per screditarne le possibili future pronunce sfavorevoli. Coerente, in questo contesto, il sostegno alla giustizia di chi ritiene tuttora valida l’analisi del girovago della libertà A. de Tocqueville («quando vedo accordare il diritto e la facoltà di far tutto a qualsiasi potenza, si chiami essa popolo o re, democrazia o aristocrazia, io affermo cha là è il germe della tirannide; e cerco di andare a vivere sotto altre leggi») e, non potendo andare a vivere in altri lidi, cerca di difendere in questi lo stato di diritto.
Indipendenza e non privilegio
Resta una domanda: l’inedita sintonia tra sinistra (o alcuni settori della sinistra) e giustizia intorno al ruolo di quest’ultima continuerà o è prossima ad esaurirsi? Difficile dirlo, anche perché molte, su entrambi i versanti (l’andamento della giustizia e le scelte della sinistra), sono le variabili. Mi limito, dunque, a tre flash su alcune premesse indispensabili, ancorché non sufficienti, perché la sintonia non venga meno.
Primo. C’è, per la magistratura, un punto fermo, rispetto al quale non sono possibili passi indietro, pur da più parti richiesti (in modo rozzo da alcuni, insinuante da altri). È il rapporto diretto con la Costituzione, cioè il riferimento costante ai valori della Carta fondamentale, l’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme, il dubbio di costituzionalità come regola. Chi auspica il ritorno agli anni Cinquanta ripropone, supportandolo con censure e intimidazioni, un modello di giudice omogeneo alla maggioranza contingente, interprete della volontà di quest’ultima, disancorato dalla Costituzione (declassata da legge fondamentale a insieme di auspici demandati alla buona volontà del legislatore ordinario). Un giudice siffatto sarebbe inevitabilmente collocato nell’orbita del potere e, come la storia ha dimostrato, verrebbe avvertito come ostile dai meno uguali ricambiando, per parte sua, tale sentimento.
Secondo. Per i magistrati il criterio di legittimazione non è il consenso ma l’agire rispettando l’uguaglianza delle parti e secondo le regole (intese non come limite esterno ma come essenza del proprio agire): nessuna forzatura o scorciatoia è possibile in vista del risultato. Sta qui la differenza tra l’agire politico e l’esercizio della giurisdizione. Chi viene in contatto con la giustizia – per usare parole di Luigi Ferrajoli – «ricorderà e giudicherà il suo giudice, ne valuterà l’equilibrio o l’arroganza, il rispetto oppure il disprezzo per la persona, la capacità di ascoltare le sue ragioni oppure l’ottusità burocratica, l’imparzialità o il pre-giudizio. Ricorderà, soprattutto, se quel giudice gli ha fatto paura o gli ha suscitato fiducia. Solo in questo secondo caso ne avvertirà e ne difenderà l’indipendenza come una sua garanzia, come una garanzia dei suoi diritti di cittadino. Altrimenti, possiamo esserne certi, avvertirà quell’indipendenza come il privilegio di un potere odioso e terribile».

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