15.11.10

Polemiche su Saviano.

Lo scrittore Roberto Saviano è oggi al centro di polemiche mediatiche e politiche assai aspre, legate al monologo che ha sviluppato nella prima puntata della trasmissione Vieni via con me e alle sue teorie su antiche “fabbriche di fango”.
Io non ho, in questo blog, una posizione da esporre o una battaglia da ingaggiare. Credo che Gomorra sia stata una operazione letteraria di valore e abbia richiesto talento e coraggio; e che le polemiche destrorse contro Saviano, da quelle di Berlusconi in persona a quelle di Sgarbi, siano indecenti. Non mi piace però una sospensione del senso critico su tutto ciò che Saviano fa, dice o scrive, né credo che gli giovi la trasformazione in una sorta di icona intangibile: rivendico per lui il diritto di fare o dire o scrivere cose sbagliate, come rivendico per me e per chiunque altro il diritto di criticarlo, anche con asprezza quando mi pare necessario. Non ho pertanto alcuna difficoltà a valutare i limiti, denunciati dai critici di sinistra, del discorso di Saviano sulle mafie, democratico-borghese e poco classista, ma non per questo lo iscrivo alla “mafia dei colletti bianchi” e, anzi, lo considero un valoroso "compagno di strada".

Saviano e Impastato
Per farmi intendere partirò da una polemica in apparenza marginale, quella relativa al capitolo dedicato a Peppino Impastato nel libro La parola contro la camorra, ove lo scrittore di Gomorra attribuisce al film di Giordana, sceneggiato anche da Fava, il merito esclusivo di aver smontato i depistaggi e di aver disseppellito la vicenda del nostro amato compagno di Cìnisi. C’è in tutto ciò un difetto d’informazione ed una (forse involontaria) carognata: si cancellano infatti il carattere sociale e politico della ribellione di Peppino, il suo “comunismo”, e la lotta per la verità condotta dalla sinistra estrema, comunista eretica.
Il caso di Impastato, in verità, quando uscì il film era già al centro dell’attenzione della Commissione parlamentare antimafia, per merito della diuturna battaglia di controinformazione condotta da sua madre Felicia, suo fratello Giovanni, dai compagni di Cìnisi e Palermo, e anche da Dp e, poi, da Rifondazione comunista. Gioverà ricordare che, nelle elezioni del 1996, uno dei due seggi senatoriali strappati alla destra berlusconica in Sicilia riguardò appunto la zona di Cinisi e Terrasini e che a guadagnarlo, sotto il simbolo di Rifondazione comunista (e non dell’Ulivo), fu Giovanni Russo Spena, giurista di vaglia, già segretario di Democrazia Proletaria, con una campagna fortemente caratterizzata dall’antimafia sociale e animata dal ricordo di Peppino.
E’ perciò sacrosanta la reazione di Umberto Santino, uno dei maggiori studiosi della mafia e un combattente senza paura, che ha chiesto, per conto del Centro studi Impastato, una rettifica a Saviano, ricorrendo alle vie legali. Solidale con Santino, riconosco che è difficile, specie per chi è acclamato come un eroe e come un profeta, ammettere un errore, tuttavia do fiducia allo scrittore e aspetto. Magari da un male viene fuori un bene e un bel risarcimento al Centro Impastato aiuterà la sua difficile battaglia in Sicilia senza danneggiare granché Saviano che di quattrini ne intasca anche troppi.
Intanto cerco di capire donde provenga questa caduta di stile dell’autore di Gomorra e vi trovo un paio di ragioni. Una mi pare di natura corporativa: esaltando il film I cento passi oltre i suoi stessi meriti (che sono grandi), Saviano attribuisce una sorta di primato nella lotta alle mafie alle opere di “invenzione”, al ruolo della “parola”, letteraria, cinematografica, televisiva, al suo mestiere insomma. Un’altra attiene al contesto ideologico e alla crisi verticale dell’idea comunista e più in generale dei progetti egualitari e antiproprietari della sinistra. La sconfitta storica del “comunismo” novecentesco si è fatta più dura man mano che si allontanava la vicenda del Pci e che gli epigoni, in un modo o nell’altro, espungevano l’elemento quasi “religioso” che ne animò l’identità, la dedizione al popolo lavoratore. “Comunista”, “comunismo”, “lotta di classe” sono diventati parole screditate quasi quanto “socialista” al tempo di Craxi. Si spiega così perché Giordana nel suo film sfumi il “comunismo” eretico di Peppino Impastato e Saviano nel suo libro lo nasconda quasi del tutto. Sul tema m’è accaduto già di scrivere su “micropolis” (vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/04/comunista-patentato-da-micropolis.html ) e non ci torno su.
Dato a Santino quel che è di Santino, non posso tacere quel che ho ricavato dalla mia esperienza di volontariato in Libera Umbria: sono tanti qui in Umbria (e credo in tutta Italia) i giovani che, non trovando gli antichi canali della politica per esprimere la loro ribellione al potere e la loro ansia di giustizia, hanno scelto un impegno civico di volontariato contro le mafie proprio a partire dal film di Giordana e da Gomorra. Essere con la memoria di Peppino Impastato e con l’attualità di Saviano ed essere con il coraggio di entrambi è il loro modo di essere di sinistra. E’ cosa che non si può ignorare.

O di qua o di là
La verità è che vent’anni di berlusconismo ci consegnano un clima di nervosismo, di contrapposizione, di guerra di tutti contro tutti, di incapacità di fare o accettare critiche esplicite ed aspre, senza vedervi un’aggressione contro la propria persona. Non è stato sempre così. Parto da un controverso passaggio del monologo di Saviano riferito alla “macchina del fango”, che contiene un frammento di dibattito tra il magistrato Falcone e l’avvocato Galasso, al tempo esponente del Comitato antimafia e della Rete di Orlando.
L'accusa di Saviano mi pare senza fondamento, ma anche le aquile di tanto in tanto scendono al livello delle oche. In verità Galasso non era ingranaggio di alcuna macchina del fango contro Falcone e la sua polemica non era neppure lontanamente paragonabile alle lettere anonime del “Corvo” che circolarono a Palermo. Il suo era un dissenso esplicito e motivato ed era comune ad una grande parte del movimento antimafia, che aveva giudicato un errore la scelta di Giovanni Falcone di trasferirsi al ministero per collaborare con il ministro Martelli. Basta ricordare che la prima firma sul documento di dissenso dalla decisione di Falcone era del suo “dioscuro”, il p.m. Borsellino.
Il giovane Saviano non va per questo impiccato. Cresciuto sotto Berlusconi, nel tempo infame dello “O di qua o di là”, neppure immagina che potesse esserci un tempo di maggiore libertà in cui, anche su questioni delicate come la lotta alla mafia o le separazione delle carriere in magistratura, si poteva dissentire dagli amici, senza sospettarli o essere sospettati di tradimento. Sono certo che queste stesso polemiche aiuteranno uno scrittore come Saviano a crescere e potenzieranno in lui il senso della storia che è in genere assai carente nell’ultima generazione di intellettuali.

Su un piccolo giornale in pericolo di vita
Intorno a Saviano è cresciuta, intanto, un’altra polemica, su un piccolo giornale con cui aveva collaborato per un paio di anni: “il manifesto”. La cosa è cominciata con un libro del critico letterario Alessandro Del Lago, pubblicato dalla manifesto libri. Del Lago discuteva la qualità estetica di Gomorra e l’approccio antropologico ai fatti di camorra dello scrittore, che gli sembrava omettesse il legame delle mafie con il capitalismo. Sul “quotidiano comunista” uscivano ai primi di giugno due autorevoli interventi che non avrebbero potuto essere più dissimili: quello di Norma Rangeri, appena eletta direttore del giornale, e il sassofonista Daniele Sepe, musicista di grande valore e anima della “manifestodischi”. ( http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/11/pro-e-contro-saviano-norma-rangeri-e.html)
La prima difende a spada tratta lo scrittore Saviano, definendolo “bene comune” (“Saviano si è conquistato una credibilità per quello che ha scritto e per ciò che ha fatto”) e paragonando l’astio di estrema sinistra nei suoi confronti a quello diretto verso il “predicatore” Vendola. Le conclusioni di Rangeri sono aspramente polemiche verso una certa sinistra settaria e schizzinosa: “Ogni volta che nella sinistra nasce una speranza legata a una persona capace di interpretare e di rappresentare qualcosa di più di se stesso, scatta una voglia matta, un vizietto masochista, di buttarlo giù… Se essere ascoltati, avere successo, essere amati, avere a cuore il riscatto dei deboli, essere il testimone di storie come quella di don Diana, fare una battaglia per la legalità contro le mafie (nel paese di Falcone e Borsellino) sono trappole borghesi, modi sbagliati di fare politica, mi piacerebbe che in Italia fossimo sempre di più a sbagliare così”.  
Una “risposta a Saviano da sax comunista” viene invece da Sepe, che non sopporta con un’antimafia che prova orrore per i camorristi e difende i capitalisti, con un’antimafia legalitaria che non mette in discussione gli apparati repressivi dello Stato che colpiscono i proletari prima ancora che i camorristi. E finisce con un attacco diretto allo scrittore di Gomorra : “Mentre si rivolge in maniera educata e deferente al nostro Presidente del Consiglio, suo editore, con una «preghiera», ai tempi della legge sul processo breve, tuona contro le belve assetate di sangue sedute dietro una sbarra al processo «Spartacus». Sarà, ma io trovo il capitalismo italiano e i boss camorristici tragicamente simili”.
A ottobre “il manifesto” pubblica un intervento di un esponente storico di Magistratura democratica, Livio Pepino, oggi membro del Csm, che rifiuta di partecipare a una sorta di referendum pro o contro Saviano ed affronta il tema teorico-politico degli “apparati repressivi”, con particolare riferimento alla magistratura e della sorta di “mutazione genetica” vissuta dai magistrati all’insegna della Costituzione.
Già nei primi anni Ottanta, ma più ancora durante e dopo Tangentopoli e nell’era Berlusconi, i magistrati (e talora anche i carabinieri e i poliziotti) per Pepino “non sono più quelli di una volta”: non lo sono nella realtà e più ancora nella coscienza delle donne e degli uomini di sinistra. Sono assolutamente d’accordo. L’altro ieri un caro amico e compagno giornalista, Vicè Vasile, di cui ho recuperato una bella pagina sulla mafia siciliana e sul generale Dalla Chiesa, scriveva di noi due su fb:“Ai nostri tempi né lui né io ci saremmo sognati che un giorno avremmo pianto al funerale di un generalone dei carabinieri...”. E’ successo però, e non per nostra dissennatezza, ma perché nei cento giorni palermitani di quel generale (per altre cose discutibile) si intravedeva un volto e un ruolo dello Stato diverso che in passato, uno Stato che non si limitava a controllare e a usare la mafia, ma la combatteva e con ciò contribuiva a liberare le masse popolari da una soggezione.
La polemica ha avuto qualche sviluppo nei giorni scorsi, quando, replicando ad un appello di Raffaele K. Salinari che chiedeva a scrittori, musicisti e simili di versare al “manifesto” parte dei loro diritti, Sepe ha ribadito la sua idiosincrasia verso Saviano ed ha usato la difesa che Rangeri ne ha fatto per abbozzare una critica generale della linea del “manifesto”. Questo tema merita un discorso a parte. Qui l’affronto dal punto di vista del sentimento. L’antipatia di Sepe per l’autore di Gomorra mi pare del tutto ingiustificata, ma non mi sento affatto lontano dalla sua professione di sax comunismo e anch’io cancellerei più di un articolo dal “quotidiano comunista”. Non dimentico però che i servizi di Loris Campetti sulla Fiat, a Pomigliano e altrove, li trovo solo sul “manifesto”. Nella situazione data di reazione, piaccia o non piaccia, l’unica sinistra efficace è quella che si ricostruisce, una “sinistra larga” e varia dove stanno insieme  cose diverse, per esempio ammiratori e detrattori di Saviano. Questa contaminazione, obbligata, non è una disgrazia, ma un’opportunità: c’è un dialogo e un confronto da fare, una battaglia politica, culturale e sociale da ingaggiare, se necessario. Ma per carità conserviamoci “il manifesto”: ne abbiamo tutti bisogno.

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