13.12.10

Balzac più moderno di Proust (di Alessandro Piperno)

D'un tratto, durante il primo convegno cui partecipai come relatore, mi colsi a origliare una conversazione tra Mariolina Bongiovanni Bertini, Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria. Da bravo Rastignac alle prese con il mio esordio in società, sapevo che quei tre accademici si contendevano lo scettro del principato degli studi proustiani di cui avevo appena ottenuto il passaporto. I loro nomi (che fin lì avevo visto soltanto stampati) risuonavano nella mia immaginazione al fianco di quelli di Swann o di Madame de Guermantes.
Argomento della chiacchierata: Balzac. Mariolina Bertini, che da anni ne cura l' opera per i Meridiani Mondadori, sta sostenendo che il suo mondo, se possibile, è più intricato di quello proustiano: gli altri due studiosi strabuzzano gli occhi come di fronte a qualcosa di inaudito, ed io rimango stregato.
Così scoprii Balzac, come una sfida: la scalata a una montagna ancora più alta e irraggiungibile... Un altro paese di cui violare i confini e ottenere la cittadinanza. Uso il verbo «scoprire» invece del più appropriato «riscoprire» perché, sebbene avessi già letto molti romanzi di Balzac, trovandoli incantevoli, non avevo inteso di fronte a quale forza della natura mi trovassi al cospetto. Ma ora so che l' opera balzachiana può divorarti come un mostro! Sarà per questo che abbiamo dovuto attendere così tanti anni il nuovo Meridiano Balzac, il secondo di una serie che ne prevede tre? Perché cimentarsi con quell' idra è uno sport estremo? A giudicare dall' apparato di note esibito da questo volume direi proprio di sì. Claudia Moro ha fatto un lavoro impressionante, come se avesse voluto contendere a Balzac ogni grammo della sua sapienza. Perfino la versione francese della prestigiosa collana Pléiade al confronto sbiadisce. Insomma ecco la notizia: Balzac è in libreria con le Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane - nobilitati da una traduzione nuova di zecca e da una pesantemente rivista - per riraccontarci le avventure di Lucien de Rubempré, un arrivista senza talento per l' arrivismo. «Una delle più grandi sciagure della mia vita è la morte di Lucien de Rubempré. È un lutto da cui non sono mai riuscito a riprendermi completamente». È una celebre battuta che Oscar Wilde mise in bocca a un suo personaggio. Come interpretarla? Come l' ennesima dichiarazione di primato dell' arte sulla vita? Temo di no, almeno non stavolta. Wilde ci sta facendo dono - alla sua maniera - d' un' intuizione che avrebbe fatto delirare di piacere lo stesso Balzac, la cui più alta aspirazione, da un certo momento in poi della sua carriera, fu di mescolare schizofrenicamente la vita con l' arte. Il mito racconta che, dopo aver concepito il così detto «ritorno dei personaggi», confidasse alla sorella di essere diventato un genio. Il «ritorno dei personaggi» era il collante miracoloso che sin dai primi anni ' 30 aveva cercato per tenere assieme la più mastodontica raccolta di romanzi mai concepita: la Commedia Umana. Sicché, d'ora in poi, i personaggi dei romanzi precedenti sarebbero ricomparsi nei successivi, e in tal modo lui avrebbe costruito un universo che potesse competere con il mondo reale. Se la vita non è divisa in capitoli e in paragrafi, perché dovrebbe esserlo l' opera d' arte? Non accade forse spessissimo che un individuo inessenziale nell' adolescenza divenga fondamentale nella nostra maturità? E viceversa? Proust, che su questo principio avrebbe fondato la sua opera, scriveva: «Tali effetti sono possibili solo grazie all' ammirevole trovata di Balzac di far ricomparire in tutti i suoi romanzi gli stessi personaggi. Così un raggio staccato dal fondo dell' opera, passando su un' intera vita può toccare, con la sua luce ambigua e malinconica, quel castello della Dordogne e la sosta dei due viaggiatori». Eppure, strano a dirsi, Proust, che aveva capito la portata della rivoluzione balzachiana, non riuscì a comprenderne la novità artistica. Trovava Balzac volgare. E per gli stessi motivi per cui noi - dalla nostra tribuna privilegiata - lo ammiriamo e lo saccheggiamo: per le discontinuità stilistiche, l' abuso dell' argot e della polifonia, gli impulsi dei personaggi oscillanti tra meschinità e sentimentalismo, l' importanza eccessiva conferita al denaro, il ricorso a trovate che non avrebbero sfigurato sui feuillettons di Sue e Dumas così popolari in quell' epoca. E temo che Proust avrebbe giudicato il nostro spasso assai grossolano. Anche se ho sempre avuto l' impressione che il suo giudizio fosse viziato dal classismo. Che in lui agisse la tipica boria del figlio di papà che arriccia il naso di fronte alle trivialità di un pezzente smanioso di affermarsi. E per capirlo basta confrontare i suoi personaggi con quelli di Balzac: i primi vivono infelicemente di rendita, i secondi si fanno il mazzo. In fondo anche la scomunica scagliata da Virginia Woolf contro l' Ulisse di Joyce scaturiva da analoghi pregiudizi. Insomma ci sta che Proust e la Woolf - quei due superbi signori decadenti - provassero istintiva ripugnanza per il realismo. E chi più realista di Balzac e di Joyce? E, allo stesso tempo, chi più di loro antirealista? Eh sì, perché il genio di Balzac si esprime nel ripudio dell' estetica realista a favore dell' apostasia visionaria. Mariolina Bertini, nella mirabile introduzione a Illusioni perdute, dà conto di questa abiura. Soprattutto nella parte in cui mostra la svolta critica degli anni Sessanta. Gli studi di Picon e di Chollet - che restituirono al ciclo di Lucien de Rubempré quell' aura mitica e demoniaca che fanno di Balzac un erede di Dante e di Goethe - lasciarono riemergere, dalle tenebre in cui l' avevano confinata i critici dell' 800, l' enigmatica figura di Vautrin. Personaggio che i lettori di Balzac avevano lasciato in Papà Goriot, alle prese con il suo Rastignac, che d' un tratto, quasi dal nulla, risorge alla fine di Illusioni perdute, sotto le spoglie d' un gesuita spagnolo che salva Lucien dal suicidio pagando i suoi debiti e di fatto comprando la sua anima, Vautrin appare di shakesperiana magnificenza. Al punto che il suo nichilismo, la machiavellica visione del mondo, le demoniache capacità trasformiste, la pederastia repressa ci parlano di noi, ispirandoci sentimenti di sgomento. Vautrin è un mistero così tenebrosamente familiare! È lui il santo patrono della Commedia Umana, che dona al mondo balzachiano quell' inconfondibile sentore di scacco e di beffarda crudeltà. Non a caso Charles Baudelaire - che di sfiga se ne intendeva - scrisse: «Balzac aveva tre sogni: una grande edizione ben curata delle sue opere, il saldo dei suoi debiti e un matrimonio coccolato e accarezzato da parecchio tempo nel fondo del suo spirito; grazie a fatiche la cui mole atterrisce l' immaginazione dei più ambiziosi e laboriosi, l' edizione si fa, i debiti si pagano, il matrimonio va in porto. Balzac senza dubbio è felice. Ma la sorte maliziosa che gli aveva permesso di mettere un piede nella sua terra promessa subito ve lo strappò violentemente. Balzac ebbe un' agonia terribile e degna delle sue forze». Ho in mente la battuta con cui il pittore di successo interpretato da Nick Nolte in un geniale cortometraggio di Scorsese rimorchiava l' ennesima ammiratrice: «Quello che posso offrirti, baby, è solo una lezione di vero». È proprio con questa promessa che Balzac ci ha accalappiato, per poi, alla fine, donarci molto molto di più.

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