22.12.10

Borghesia italiana e borghesia mafiosa (di Umberto Santino - da "Cassandra")

 
Lillo Testasecca
Lillo Testasecca, un ravanusano che ho conosciuto a Perugia, in un convegno di “Segno critico”, era funzionario del Corpo Forestale ed era un comunista senza partito, persona di grande rigore e spessore. Aveva dato vita ad una rivista trimestrale, Cassandra, di cui era proprietario e condirettore, che lavorava da alcuni anni su temi poco amati dalla sinistra italiana, di quelli su cui si è preferita la damnatio memoriae, come la parabola dell’Urss e del cosiddetto “socialismo reale”. Lillo è morto all’improvviso, il 26 settembre, mentre stava preparando un numero speciale della rivista, interamente dedicato a un bilancio marxista dei 150 anni dell’Unità d’Italia. La rivista cartacea è, praticamente, morta con lui, ma gli amici e i compagni più vicini hanno deciso di tenere vivo ed alimentare come una vera e propria rivista il sito che le era collegato (http://www.cassandrarivista.it/index.html), cominciando con il pubblicare i materiali già pronti del numero speciale in preparazione. Si tratta di testi di grande qualità. In questo blog intendo proporne un paio nella speranza che invoglino a leggere anche gli altri e a visitare il sito. Questo di Umberto Santino, Borghesia italiana e borghesia  ha un dono raro, quello della chiarezza e della sintesi: spiega i tratti costitutivi della borghesia mafiosa all’interno del blocco di potere dello stato unitario e verifica il successo di un modello che oggi sembra consolidare la sua presenza fino ai vertici del sistema politico. (S.L.L.)    
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Borghesia italiana e borghesia mafiosa
di Umberto Santino
Umberto Santino

Nel linguaggio marxiano il concetto di borghesia ha una duplice modulazione. A un modello teorico dicotomico, per cui la borghesia appare come un blocco compatto, il soggetto detentore dei mezzi di produzione è la classe dominante, a cui si contrappone il proletariato, definito proprio per la sua espropriazione dei mezzi produttivi, si affianca un’analisi pluralistica, quella del Marx storico (Il 18 brumaio, Lotte di classe in Francia) che studiando la società reale individuava più classi o frazioni di classe: l’aristocrazia finanziaria, la proprietà fondiaria, la borghesia industriale, la piccola borghesia, i contadini, il proletariato industriale, il sottoproletariato.
Il terzo libro de Il Capitale contiene un frammento sulle classi che costituisce l’inizio di un cinquantaduesimo capitolo che non è stato scritto. Si parla di tre grandi classi della società moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico: gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari. Marx si chiede: che cosa costituisce una classe? E si risponde: a prima vista può sembrare che gli individui che formano le tre classi “vivono rispettivamente di salario, di profitto e di rendita fondiaria, della valorizzazione della loro forza-lavoro, del loro capitale e della loro proprietà fondiaria”. In realtà c’è un “infinito frazionamento di interessi e di posizioni, creato dalla divisione sociale del lavoro fra gli operai, i capitalisti e i proprietari fondiari”.
Quell’“infinito frazionamento” costituisce insieme un problema teorico e un problema storico e politico e induce a misurarsi con una realtà ben più complessa di quanto possa apparire dal modello astratto. Lo stesso Marx ci offre un’indicazione con il concetto di “formazione economico-sociale”, definita come una totalità formata di rapporti sociali, mezzi di produzione, modelli culturali. E su questa strada si incontrano aspetti psicosociologici che ci aiutano a studiare le classi sociali nelle loro dinamiche concrete e nei loro sviluppi storici. Per cui l’incontro con le riflessioni di Weber, che parla oltre che di classi di ceti, o status, e di partiti, analizzando le disuguaglianze sociali originate dalla interazione tra ricchezza, prestigio e potere, e di altri più vicini a noi, che analizzano i network sociali, mi sembra obbligato. Se il pensiero critico vuole avere diritto di cittadinanza nella società contemporanea bisogna passare da un sistema tolemaico a un sistema copernicano.
La borghesia è un soggetto plurale, che comprende quella che con Sylos Labini possiamo considerare la borghesia vera e propria: grandi proprietari di fondi rustici e urbani, imprenditori, professionisti. C’è poi una piccola borghesia variamente articolata: impiegati, coltivatori diretti, artigiani, commercianti, altri che vivono di stipendio. Quale è stato il ruolo di questi soggetti nel processo unitario e nella storia dello Stato italiano?

Dalla democrazia bloccata alla democrazia espropriata
Fino a che punto reggono ancora le letture del Risorgimento di classici come Villari, Dorso e Gramsci, che parlavano di rivoluzione politica senza rivoluzione sociale, di conquista regia, di rivoluzione passiva e rivoluzione agraria mancata?
Le critiche mosse dallo storico liberale Rosario Romeo, pur contenendo osservazioni condivisibili e muovendo dalla contestazione di marxismi più o meno improvvisati e di convenienza, non mi pare che abbia smantellato l’impianto di fondo di quelle interpretazioni… Il nuovo Stato fu il frutto di un compromesso tra gruppi di capitalisti agrari, mercantili e in piccola misura industriali e gruppi di proprietari terrieri, giuridicamente ormai borghesi, ma ancora feudali (Candeloro).
Il predominio delle forze conservatrici è incontestabile, e anche successivamente, con l’affermazione nel Nord di una borghesia imprenditoriale, foraggiata dal denaro pubblico con la creazione della rete ferroviaria e di altre infrastrutture, il patto con gli agrari meridionali ha retto fino alla loro scomparsa, sostituiti da una borghesia parassitaria e in Sicilia a egemonia mafiosa. Questa alleanza ha significato l’esclusione delle classi popolari dalla gestione del potere e la fragilità sostanziale della democrazia italiana.
Negli anni che vanno dal 1861 al fascismo lo Stato era un sistema chiuso (all’inizio votava l’1,9 per cento della popolazione, il suffragio universale maschile, ma con limitazioni, è introdotto nel 1912, il voto alle donne sarà concesso nel 1946), dominato da un blocco di potere che ha usato la violenza per mantenersi e perpetuarsi. La criminalizzazione dell’opposizione garibaldina e mazziniana, la repressione del brigantaggio, forma strumentalizzabile e strumentalizzata di opposizione al nuovo Stato e di guerra civile, con migliaia di morti; i massacri dei Fasci siciliani (108 morti dal gennaio del 1893 al gennaio del 1894: sparavano i campieri mafiosi e i soldati inviati dal governo); i massacri del 1898, con circa 800 morti, sono la prova più evidente di un regime pronto a usare le armi, gli stati d’assedio, le leggi eccezionali per impedire l’ascesa delle masse popolari. E quando, con il biennio rosso (1919-20), gli operai occupano le fabbriche e nel ’21 nasce il Partito comunista, la risposta che è parsa più conveniente è stata il fascismo. Gobetti parlava del fascismo come autobiografia della nazione. Gran parte del popolo italiano, dalla borghesia industriale e agraria alla media e piccola borghesia, a strati contadini e operai, si è riconosciuta nella dittatura, nell’“uomo della Provvidenza”, secondo la benedizione di Pio XI. Il blocco sociale che lo ha espresso è certamente a egemonia borghese, ma il consenso è interclassista.
La Resistenza vide una partecipazione ridotta: 250 mila sono i partigiani ufficialmente riconosciuti, in gran parte provenienti dalle classi subalterne e dalla borghesia professionale. La Costituzione nasce da un patto sociale che viene rotto a lavori in corso: nel maggio del 1947 viene sciolto il governo di coalizione antifascista e nasce il centrismo democristiano. E il primo di quel mese la strage di Portella della Ginestra era la risposta alla prima e ultima vittoria delle sinistre, raccolte nel Blocco del popolo, alle elezioni regionali siciliane del 20 aprile. Nel Mezzogiorno si consuma l’ultima ondata delle lotte contadine, con una partecipazione ben superiore a quella per la lotta resistenziale, e con decine di morti, in Sicilia, in Calabria, in Lucania, nelle Puglie. Con la rottura del ’47 si apre il mezzo secolo di potere democristiano, aperto ai partiti conservatori indicati come mandanti della strage di Portella. La democrazia, formalmente aperta, è di fatto bloccata, senza possibilità di ricambio. La “celere” di Scelba ha mano libera a reprimere lotte contadine e operaie. Quando non bastava la violenza istituzionale, si innescava quella padronale e mafiosa, regolarmente impunita. Tutti gli omicidi di militanti e dirigenti delle lotte contadine sono impuniti. E quando le sinistre si affacceranno sulla scena forti di un crescente consenso elettorale, si aprirà la stagione delle stragi, da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, tutte impunite perché c’erano dentro servizi segreti e settori delle istituzioni.
La seconda Repubblica nasce dalla sconfitta storica del “socialismo realizzato”, prostituito alla dittatura dei burocrati del partito unico, e dalla frantumazione delle sinistre e il consenso elettorale investe del potere un personaggio icona e riproduttore del peggio del Paese. Palazzinaro con soldi di dubbia provenienza, monopolista delle televisioni private per grazia di politici corrotti, politico per risolvere i suoi problemi giudiziari e aziendali, vincitore di tre elezioni con un partito-azienda fatto e rifatto a sua immagine e somiglianza. Le stragi politico-mafiose accompagnano la nascita del suo potere e della privatizzazione dello Stato. Le leggi ad personam segnano l’uscita del Paese Italia dalla Costituzione, apertamente attaccata come prodotto dell’influsso sovietico, farina del sacco dei “comunisti”. Siamo passati dalla democrazia bloccata, ma con una forte opposizione politica e sociale, a una democrazia espropriata, con i parlamentari nominati, un governo di servi e di ballerine, i partiti ridotti a clan personalistici
Questa storia è il prodotto di una società in cui la borghesia, le borghesie, soprattutto gli strati più alti, non spiccano certo per vocazione democratica e mostrano inequivocabilmente di preferire soluzioni più o meno apertamente autoritarie, dal duce romagnolo al ducetto di Arcore. Con stigmi inconfondibili: populisti, istrioni, fintamente devoti, puttanieri.

Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi
Il ruolo della borghesia mafiosa
Il concetto di“borghesia mafiosa”, su cui si fonda la mia analisi del fenomeno mafioso, ha due precedenti: uno remoto e l’altro recente. Il primo è l’inchiesta del 1876 di Leopoldo Franchetti, che parlava dei mafiosi come “facinorosi della classe media”, che esercitavano l’”industria della violenza” per arricchirsi e comandare. Il secondo è dato dalle analisi di Mario Mineo, che parlava di mafia come strato dominante della borghesia siciliana a partire dagli anni ’50 del secolo scorso.
Abitualmente si indica la fondazione dello Stato unitario come data di nascita dell’organizzazione mafiosa, ma a quella data la mafia è un fenomeno compiuto da tempo. Il lungo percorso avviato con i fenomeni premafiosi (pizzi, abigeati, prassi criminali regolarmente impunite per il rapporto tra delinquenti e settori del potere sono documentabili fin dal XVI secolo) si era già perfezionato negli anni ’30 dell’Ottocento. Già allora troviamo i requisiti essenziali di quello che ho chiamato “paradigma della complessità”: l’organizzazione dei professionisti del crimine, il sistema relazionale, il campionario delle attività illegali e legali.
Nella fase preunitaria e nel 1860 e nella rivolta palermitana del 1866 si scontrano squadre popolari e controsquadre aristocratico-borghesi. Si è parlato di una “mafia popolare” (alcuni capi delle squadre popolari hanno certamente i tratti dell’assassino e del delinquente), ma quella che si imporrà sarà la mafia delle controsquadre, attivate a tutela degli interessi dei possidenti.
La rivolta di Castellammare e il caso dei pugnalatori di Palermo del 1862 sono la prova dell’uso della violenza nella lotta politica e di un esordio della “strategia della tensione” e la fase che va dal 1861 al 1876, con il governo della Destra, vede una “mafia politica” giocare sia sul tavolo dell’opposizione, che su quello governativo. L’assassinio del generale garibaldino Corrao del 1863 è il primo esempio di un delitto politico-mafioso che colpisce un eroe popolare confinato all’opposizione e considerato un capomafia dalla criminalizzazione in blocco di garibaldini e mazziniani. Con l’avvento al potere della Sinistra si è parlato di “legalizzazione della mafia” e mafiosizzazione delle istituzioni. Tra i mafiosi del tempo figurano possidenti, notabili locali e professionisti, notoriamente manutengoli dei banditi. La base dell’organizzazione criminale è transclassista, così pure il blocco sociale dentro cui agisce, ma nel sistema relazionale il ruolo prevalente è di soggetti della borghesia.
L’inchiesta privata di Franchetti pubblicata nel 1877 chiarirà che la mafia si configura come “una classe con interessi suoi propri”, la cui sussistenza va ricercata nella “classe dominante”, che lo Stato è deciso contro le classi popolari, ma impotente contro la “classe abbiente”. Ci sono già allora tutti i caratteri della borghesia mafiosa. Essa è formata soprattutto dagli affittuari dei latifondi e fa parte del blocco agrario al potere.
Durante i Fasci siciliani, qualcuno gioca a cavalcare la protesta (due Fasci sono fondati da mafiosi, altri Fasci sono espressione di contrasti locali), ma il grosso della mafia è impegnato a reprimere la prima ondata del movimento contadino, assieme ai militari mandati da Crispi, capo del governo ed esponente del blocco agrario. Che riuscirà ad esprimere altri capi del governo, come Di Rudinì, Vittorio Emanuele Orlando, lo stesso Scelba. Il delitto Notarbartolo, del 1893, rivela la mafia a livello nazionale, ma i processi finiscono con l’impunità del mandante, il parlamentare Palizzolo.
La storia successiva dovrebbe essere nota: il ruolo nella repressione delle nuove ondate delle lotte contadine, la persecuzione della mafia militare e la cooptazione degli strati più alti nel fascismo, il ruolo svolto dalla mafia, più che nello sbarco degli Alleati in Sicilia del 1943, nel controllo sociale degli anni successivi, con la ripresa delle lotte contadine, il massacro di militanti e dirigenti. E poi, con la fine del blocco agrario, il passaggio alla fase urbano-imprenditoriale e finanziaria e il ruolo egemonico a livello locale e l’espansione nazionale e internazionale. Con il crollo del “socialismo reale”, la fine del ruolo di baluardo contro il comunismo spinge alla ricerca di nuovi interlocutori. I grandi delitti e le stragi innescano l’effetto boomerang, con l’arresto e le condanne di capi e gregari e la crisi dell’organizzazione criminale: ma il modello mafioso di accumulazione e di potere, con la legalizzazione dell’illegalità e l’impunità come status symbol, diventa modello istituzionale. Questa è storia dei nostri giorni, che rischia di ipotecare il futuro se mancherà una concreta alternativa al berlusconismo come forma di potere padronale-mafioso.
Indicazioni bibliografiche:
Rosario Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959,1970.
Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974.
Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Vol. V, Feltrinelli, Milano 1968, 1978.
Umberto Santino, Breve Storia della mafia e dell’antimafia, Di Girolamo, Trapani 2010; Dalla mafia alle mafie, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2000, 2009.

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