Tra i caduti di Adua, nel 1896, vi fu un sottotenente di venti anni, Carlo Beltrami, la cui famiglia seguiva per tradizione la carriera militare. Nel 1983, nella collana “La memoria” diretta da Leonardo Sciascia, Sellerio editore pubblicò Una breve illusione, un libretto costruito con le sue lettere alla madre, inframmezzate da cronache del “Corriere della sera” e seguite da documenti ufficiali sulla sua morte quasi tutti ripresi da archivi militari. Ne sono autori un nipote e un pronipote del sottotenente, a loro volta figlio e nipote di un Beltrami che servì nell’aeronautica e che morì generale collaudando un aereo. Funge da epigrafe un frammento di sceneggiatura da un celebre film di Renoir La grande illusione, a cui il titolo del libro rimanda, un dialogo tra due ufficiali di carriera nella Grande Guerra, un tedesco e un francese, che, pur nemici, proclamano la fine del mondo cui erano stati educati. Il libro ci presenta in effetti un uomo, meglio si direbbe un ragazzo, che è assolutamente privo nelle sue parole di esaltazione guerresca e di retorica militarista e che sembra fare quello che fa per il “senso del dovere” e che trova nell’adempimento dei suoi obblighi di status la motivazione profonda del suo agire e una ragione di soddisfazione, e che va incontro alla guerra e al suo rischio mortale senza pretendersi eroe. I documenti di contorno mostrano il male della guerra coloniale e l’ottusità di gran parte dello stesso vertice militare e nondimano aiutano l’antimilitarista a capire che non c’è solo boria, vanagloria e incomprensibile autoritarismo nel “servizio” militare e che parole come “onore”, rese odiose dagli inutili massacri, possono nella concreta esperienza degli individui, meritare un grande rispetto. Quella che qui ripropongo è una lettera da Adigrat: Adua è già “in mano ai ribelli tigrini” e il sottotenente sta compiendo per tappe il suo ultimo viaggio. Alla madre parla del tragitto già percorso, delle piccole difficoltà superate, del cibo, con sobrietà, stringatezza e un tocco d’ironia. Un modello di stile. (S.L.L.)
Una stampa d'epoca sulla disfatta italiana ad Adua (1896) |
Adigrat, 14 gennaio 1896
Donna Giuseppina Beltrami
Via Vanchiglia, 16
Torino
Mia carissima mamma, finalmente trovo il mezzo di inviarti mie notizie ed il tempo di scrivere. A Massaua, ove mi sono fermato tre giorni, non ho potuto perché non partiva al momento alcun postale; ho atteso anche per poterti dire della mia nuova destinazione che ignoravo completamente. Alle 12 del giorno otto ho saputo di essere destinato al 2° Battaglione di Fanteria d’Africa, uno dei tre nostri Battaglioni bianchi (Cacciatori, 1° e 2°) e che la sera stessa dovevo partire per Adigrat e pensare a provvedermi di viveri e pensare ai bagagli, ché non si poteva portare che la sola cassetta d’ordinanza (quella piccola che avevo a Torino).
Ho avuto appena il tempo di fare alcune provviste, mettere nella cassetta il più utile, consegnare al magazzeno la valigia e la cassetta del fucile; indi andarmi a scegliere il muletto per i bagagli e per me. Sventuratamente non sono riuscito a trovare una sella nemmeno a volerla comprare, sicché ho dovuto fare tutta la marcia sin qui sopra un basto abissino: ossia un sacchetto di paglia legato mediante una corda e con un’altra corda doppia che formava le staffe. Ora figurati le difficoltà di fermare sopra un tale equipaggiamento anche il mantello e la borsa-zaino e fare poi da 60 a 80 chilometri il giorno e per 5 giorni consecutivi. Meno che la prima marcia in pianura da Massaua ad Archicò che è stata brevissima, se no per le altre abbiamo dovuto stare da 10 a 14 ore in sella e per strade montane ove ad ogni passo non si capisce dove il mulo possa mettere i piedi. Ecco l’itinerario: il giorno 8 alle 18 partenza da Massaua per Archicò ed arrivo alle ore 21; il 9 partenza ll’alba con alt dalle 12 alle 14 presso i pozzi (dalla partenza non si era trovato un goccio d’acqua ed il sole bruciava e non avevo potuto provvedermi a Massaua di uno di quei recipienti per l’acqua detti ghirbe) ed arrivo la sera alle 20 e ½ ad Ailalia. Ailalia è in tutto e per tutto un tucul (capanna) posto sopra un “geppo” che quasi chiude la valle ove passa la mulattiera e nel quale tucul stanno di stanza 10 Zaptié (i carabinieri indigeni). Lì abbiamo passato la notte alla bella stella fra gli ululati delle iene che peraltro non si sono avvicinate di troppo. la carovana si componeva di 12 ufficiali, 3 soldati bianchi, 10 muli del bagaglio e 16 mulattieri indigeni, dei quali nessuno capiva nemmeno una parola di italiano né di arabo, per cui non ci si poteva capire che a segni ed a “legnate”, il miglior linguaggio purtroppo, ed anzi forse l’unico che capissero, cose naturale del resto perché muli e mulattieri – poveretti – erano stati requisiti per forza.
Alle 4 del 10 partenza da Ailalia, una fermata dalle 12 alle 13 a Majo ed indi in marcia di nuovo ed arrivo ad Adicaiè alle 22, sopra una mulattiera orribile con pendenze fantastiche.
Ad Adicaiè c’era per fortuna un ufficiale comandante di tappa e un tucul in muratura per cui abbiamo potuto fare un po’ di brodo con la carne in conserva e poi sdraiarci sul pavimento del tucul e dormire così al coperto. Nota che dalla partenza non si mangiava che carne in scatola, tonno e sardine, tutto freddo con la galletta che per giunta di disgrazia era mal cotta, anzi quasi cruda e quindi cattivissima (mentre quando è ben fatta è buonissima, almeno per me); ma il grande appetito ce la faceva mangiare tanto da stare in piedi e forzatamente per ragionamento.
Ad Adicaiè abbiamo cominciato ad avvertire il freddo che la notte è sensibilissimo, mentre il giorno il sole quando è alto scotta più che da noi nella più parte dell’estate.
L’11 ale 7 partenza da Adicaiè e con una fermata di una sola ora in tramezzo arrivo alle 19 a Barachit; qui pure abbiamo potuto fare un po’ di brodo presso la stazione dei carabinieri e il comando di tappa, sempre con le nostre scatole di carne, ed un po’ di borgutta, ma abbiamo pure questa volta dovuta dormire sul nudo terreno con la nebbia fitta e un freddo birbone. Per me mi sono messo (oltre la camicia di flanella che già avevo, anzi non ne ho portate altre con me) la giubba di flanella sotto quella di tela e poi ho ravvolto i piedi e le gambe nella coperta da campo; addosso l’impermeabile col cappuccio ch emi copriva la testa ed il mantello sopra tutto, sicché non ne ho sofferto gran ché ed ho dormito come un ghiro sino alle 2 del 12. Alle 3 del 12 partenza, sempre con una nebbia fittissima che ci bagnava come se piovesse – malgrado il mantello – e che è durata fino alle 10, ora nella quale il sole l’ha vinta; è cominciata una giornata splendida, con alle 11 una fermata in attesa del bagaglio che per errore non è arrivato, sicché alle 12 siamo ripartiti a digiuno stringendo la cinghia dei pantaloni e con una fame da lupi; alle 18 e ½ arrivo ad Adigrat.
Mi presentai direttamente al mio battaglione ove fui accolto cordialmente e destinato alla IV Compagnia del Capitano Cossa ed invitato a pranzo; t’assicuro che ho dato un vero assalto. Figurati: vero pane fresco, carne fresca e persino un timballo di maccheroni, tutto ciò presentato a chi non aveva messo nulla nello stomaco da quasi 24 ore e che da 4 giorni non mangiava che forzatamente la galletta nostra immangiabile, tanto per stare in piedi. Il servizio mi chiama, quindi debbo per ora lasciarti per continuare domani o poidomani.
Baci affettuosissimi a tutti voi
CARLO
P.S. La borgutta è una specia di focaccia molto semplice, farina impastata per mezzo dell’acqua con poco sale, fatat sepssa circa da un ½ ad 1 centimetro, di forma rotonda con diametro per lo più un palmo, cotta sulla brace. Quando è ben cotta è mangiabilissima ed in piccola quantità anche abbastanza buona; è quasi il solo vitto degli indigeni: questo fra parentesi.
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