Ho recuperato il testo che segue dal sito “Nazione indiana”. In apparenza è una recensione, di un recente libro di Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip pubblicato da Einaudi, sicuramente da leggere; ma credo contenga una linea autonoma di analisi, un sistema di spiegazione originale e acuto di quanto è accaduto ed accade nella società, nella politica, nella cultura italiana. Sui problemi qui sollevati bisognerà ritornare. (S.L.L.)
“Dove sono stati per tutto questo tempo i progressisti?” La domanda posta da Massimiliano Panarari a p.122 di L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip (Einaudi) riguarda l’ultimo trentennio di storia patria, e merita attenzione.
Secondo l’autore, docente di “analisi del linguaggio politico” all’università, quel periodo ha visto il trionfale instaurarsi nel corpo sociale della sottocultura dell’intrattenimento e del gossip, funzionale all’“episteme della contemporaneità postmoderna” (p.9): diffusa in modo molecolare attraverso i media e coerente con il progetto reazionario del “pensiero unico neoliberale” ovvero del “fondamentalismo di mercato” (p.5), per Panarari essa ha saputo conquistare quegli ampi strati della popolazione che la sinistra non è stata più capace di coinvolgere, a partire dagli anni ottanta, e che perciò dell’ideologia neoliberista – con il suo corredo di individualismo, darwinismo sociale e primato assoluto dell’economia – hanno subito l’incontrastata egemonia.
Nel nostro paese, in questa prospettiva la data di svolta non è il 1989, bensì il più prosaico 1983: l’anno in cui, sulla rete privata Italia 1, andò in onda la trasmissione “Drive In”, a cui il libro dedica diverse pagine. Ora, si dirà che identificare in un programma televisivo il momento di una rottura epocale equivale a scambiare gli effetti con le cause (e per di più in chiave localistica); ma il libro di Panarari non è un saggio di storia contemporanea, quanto un pamphlet – lo dimostra con evidenza il linguaggio, fin troppo mimetico rispetto al gergo mediatico-modaiolo il cui background ideologico è sottoposto a critica – e, come tale, si muove per schemi polemici finalizzati a promuovere un dibattito, a provocare la riflessione su un tema che non è affatto di solo costume, ma tocca l’oggi e il futuro stesso della sinistra (non a caso nell’Epilogo è chiamata in causa direttamente l’attuale leadership del Partito democratico). Gli si possono concedere, quindi, alcune ruvide semplificazioni o approssimazioni, come il troppo rapido consuntivo delle vicende del Partito comunista italiano (e della cultura della sinistra italiana in genere); mentre assai più efficaci (e condivisibili) sono le parti dedicate all’analisi dei singoli programmi, da Striscia la notizia ad Amici e via dicendo, che costituiscono i bracci armati della vincente sottocultura. Del resto, non mancano i contributi in grado di confermare il quadro delineato da Panarari sul ruolo centrale giocato dai media nella storia recente del nostro paese (anzi forse ce ne sono fin troppi).
In base all’interpretazione proposta da L’egemonia sottoculturale, che mette in primo piano, come recita il risvolto editoriale, la “costruzione del nostro immaginario contemporaneo”, “Drive In” è la spia o il sintomo locale di un progetto globale, che fuori d’Italia prendeva piede negli anni di Reagan e Thatcher, ma che poi si distingue, da noi, per alcuni fenomeni specifici e porta infine a rovesciare il senso della egemonia gramsciana. Se quest’ultima, in quanto progetto politico, vedeva negli intellettuali i portatori di “un’ideologia liberatoria e di emancipazione che potesse innescare la rivoluzione, una visione con ambizioni altissime, universali, in grado di sgombrare le teste degli individui dalle ‘idee spontanee’, corrispondenti in realtà al software che vi era stato introdotto lungo i secoli e i decenni, e vi si era sedimentato e stratificato al punto da dare la sensazione che così andassero, da sempre, le cose” (p.16), ecco che con l’avvento della dilagante sottocultura la funzione degli intellettuali è “scaltramente recuperata e reinventata” (p.129) per fare di essi gli agenti di una “distrazione di massa” che veicola la visione essenzialmente cinica della società propria del Pensiero Unico, società in cui la disuguaglianza è appunto una di quelle cose che vanno così “da sempre” (e in realtà si amplifica a dismisura, a livello planetario). Non più emancipazione, ma adesione ai palinsesti del potere dominante, in una versione aggiornata (o “ironica”) del “panem et circenses” (p.68): la libertà è ormai solo quella del Mercato e del Consumo e l’emancipazione, semmai, consiste nel poter fruire dello spettacolo serale delle procaci “ragazze-fast food”, aspirare a un quarto d’ora da divo o più semplicemente poter irridere senza complessi coloro che hanno avuto una sorte peggiore della propria.
L’occhio di Panarari è rivolto agli intellettuali e agli operatori culturali che in questo rovesciamento hanno svolto un ruolo di primo piano, inaugurando una Modernità il cui luccichio fin dall’inizio è sotto il segno del trash. Finalmente distanti sia dai modelli tradizionali proposti dall’establishment conservatore (cattolico e pre-catodico), sia da quelli di una sinistra in cronico ritardo, ancorata alla cultura crocio-gramsciana e capace sì di amministrare città e regioni, ma non di padroneggiare in senso innovativo gli strumenti dei media, a cui la nuova stagione delle tv private apriva (in Italia) territori inesplorati, i prodotti della sottocultura che spiazza e rimpiazza la seriosa, noiosa e statalizzata cultura della società vetero-televisiva vengono confezionati da una “pattuglia” di “inventori (e pensatori) italiani di Tv” (p.59) la cui genealogia culturale è fatta risalire al Situazionismo (che ufficialmente nasce nel ’58, in quel d’Imperia, per poi svilupparsi soprattutto in Francia, ma non solo, intorno al Maggio). E qui il discorso – chiaramente esplicitato sin dalla Premessa eroicomica (pp.4-5) – si fa interessante e paradossale, perché se tali sono le origini dei nuovi “pensatori di Tv”, ci troviamo di fronte a un ambito politico e di pensiero dichiaratamente di sinistra e consapevolmente sovversivo (di colorazione anarchica), erede delle Avanguardie storiche, che diventa lo strumento di una restaurazione in piena regola.
Il legante di ordine teorico e concettuale tra i Situazionisti veri e propri e le loro propaggini post-moderne e peninsulari di fine secolo non è tuttavia l’oggetto di L’egemonia sottoculturale, che si concentra sull’operazione psicosociale dispiegatasi a partire dagli anni ottanta (a p.123 si parla di “guerra psichica”) e giunta a piena fioritura con le due cooperanti Fini, delle Ideologie e della Storia, motivi ipnotici il cui stretto rapporto con la manipolazione dei media è giustamente sottolineato da Panarari (p.127). Nel libro viene comunque evidenziato come il capitale di conoscenza critica sulla “società dello spettacolo” fornito dai padri ribelli sia messo a frutto dai brillanti successori nostrani per confezionare spettacoli “carnevaleschi” (p. 68) e parodie (p. 69) capaci di sedurre e vellicare i gusti del pubblico televisivo, usando spregiudicatamente la “bassa cultura” in ordigni mediatici che presuppongono lo sguardo disincantato del lucido manipolatore. In proposito è lecito avanzare qualche riserva: non tanto sulla frequentazione, da parte della “pattuglia”, dei testi dei Situazionisti storici, e nemmeno sulla spregiudicatezza dell’operazione, quanto sul fondamento storico-culturale dell’approccio “parodico” e “carnevalesco”, che appartiene a una tradizione di lunga durata, e quindi a una zona ben più ampia e collaudata della Modernità. E più in generale, è davvero così imprescindibile l’apporto dei Situazionisti per ribaltare il progetto di emancipazione che fu di Gramsci (e prima di lui, di numerosi altri), o appunto di ciò i professionisti della distrazione si sono da sempre occupati? Ma accettiamo senza ulteriori cautele il discorso di Panarari: chi sono, allora, gli scaltri e tralignanti eredi di Debord e Vaneigem?
Tralasciando soubrettes, divetti e entertainers di vario ordine e grado, i “pifferai magici al servizio dell’egemonia sottoculturale” (p.9) sono indicati da Panarari in alcune figure esemplari: Antonio Ricci, Carlo Freccero, Alfonso Signorini, tutti ideatori e promotori di trasmissioni e pubblicazioni di largo successo (naturalmente al servizio del “Cavaliere”: di chi altro?). Pare, per inciso, che qualcuno degli interessati si sia risentito, a leggere il libro: ma non si capisce perché, a ben vedere, essendo loro complessivamente accordato, nelle pagine dell’Egemonia sottoculturale, un’importanza e uno spessore culturale persino eccessivi, per chi ha lavorato esclusivamente di seconda o terza mano e sfruttato elaborazioni critiche di almeno trent’anni prima. Nondimeno, essi restano senz’altro personaggi assai significativi del mutamento e del crinale storico di cui si occupa il libro, e un ampio numero di esponenti della stessa generazione (ognuno ne conosce qualche dozzina, famosi o meno, assessori o meno) ha condiviso i redditizi sviluppi dell’“episteme della contemporaneità postmoderna”: non conta quindi il cocktail di disinvolte banalità e aggiornati luoghi comuni che i Freccero e i Ricci, nelle interviste o negli interventi in qualità di esperti della “comunicazione”, hanno dispensato e continuano a dispensare; contano, invece, l’operazione culturale e l’armamentario ideologico che ne costituisce (non senza dosi omeopatiche di Foucault, Deleuze o Baudrillard) il lievito fondante e pervasivo, capace di attrarre soprattutto i giovani (l’ampliamento costante del target in tal senso è strutturale nella società di massa, e gioca un ruolo decisivo). Conta il bilancio finale, per cui l’elemento “liberatorio” e il dominio, la finta trasgressione e la corruzione vanno a braccetto.
È a questo punto che si può tornare alla domanda citata all’inizio: “Dove sono stati per tutto questo tempo i progressisti?” Panarari risponde che la Sinistra non c’era e se c’era, dormiva (“ma non il sonno dei giusti”), oppure “condivideva responsabilità poco commendevoli” (p.123). Non molti anni fa, a chi avesse discusso di Sinistra e di Progressismo in termini così generici, senza distinguo e precise pezze d’appoggio, non sarebbero mancati aspri rimproveri: i tomi con le diatribe storiche e ideologiche sui due ambiti occupano, in effetti, intere biblioteche. Quelle biblioteche, però, sono state sommerse dai detriti del Crollo del Muro, e se un libro che sin dal titolo si richiama a Gramsci può identificare tout court Sinistra e Progressismo e allo stesso tempo sperare, a buon diritto, in un rinnovamento della cultura che renda ognuno “protagonista della propria esistenza secondo un sistema di valori che non si fondi sull’individualismo selvaggio e la dittatura del consumo” (p.130), è perché la rimozione è stata così vasta da seppellire qualsiasi alternativa, e da far sì che il presente rimodelli il passato a sua immagine e somiglianza. Proprio questo, anzi, rappresenta il vero successo di quel che Panarari chiama la “congiura” dei “conservatori” (pp.122-123), necessario risvolto dell’affermazione capillare del Pensiero Unico e della visione aziendalistica del mondo. Di nuovo, però, restiamo al tema, e mettiamo meglio a fuoco l’osservazione secondo cui la Sinistra Progressista (ovvero, “di governo” e “riformista”) ha condiviso con i propri avversari “responsabilità poco commendevoli”.
Il discorso, qui, sarebbe lungo e il catalogo assai ricco di titoli (vedi “liberalizzazioni”, “privatizzazioni”, “scuola e università”, “guerra umanitaria”…), e lo stesso Panarari non nasconde di essersi espresso in termini eufemistici. Non ha invece il rilievo che merita, nel libro, l’annotazione secondo cui si è data in Italia una “Bicamerale dell’immaginario televisivo” (p.93): una verità per nulla scontata né di ordine incidentale. Come non è certamente casuale né secondario che della pattuglia le cui gesta hanno allietato i nostri uggiosissimi anni (tra Balcani, Golfo, Cecenia, Twin Towers, Afghanistan, Gaza e tanti altri reality di consumo globale) non facessero parte i soli Freccero e Ricci, ma anche, come ricorda l’autore (p.59), Enrico Ghezzi e Marco Giusti, i numi tutelari della programmazione colta di Rai 3, “la rete più sperimentale” (ibidem) del bistrattato “servizio pubblico” (in quanto tale, almeno in Italia, rigorosamente lottizzato). Si noti bene: nel capitolo La controrivoluzione televisiva Panarari cita “Il processo del lunedì” (1980) di Aldo Biscardi come il programma che, appunto su quella rete, “allo scoccare del fatidico decennio (…) legittimava in maniera solenne (…) gli animal spirits del tifo calcistico” (pp.24-25). Vale qui ricordare che precisamente dal calcio ebbe inizio l’irresistibile pubblica ascesa di Silvio Berlusconi? Il passaggio è esemplare, in quanto fa da apripista a tutta una serie di analoghe operazioni, fondate sul principio così descritto da Panarari: “Stop a sensi di colpa superflui e fuori luogo, il Super-Ego è mio e me lo gestisco io, e quindi via libera alla visione di qualsiasi prodotto televisivo mi aggradi” (p.25). Il gergo è intenzionalmente “sessantottesco”, e infatti una delle tesi del libro è che “il neocapitalismo ha trasformato in pulsione irrefrenabile al consumo e in bisogno di affermazione (più o meno vitalistica) a ogni costo” per l’appunto “il nostro desiderio illimitato, sdoganato e celebrato dal Sessantotto” (p.126): dove, per inciso, l’interpretazione della cesura rappresentata da quel momento storico coincide con la versione (interessatamente parziale, ma non senza legittimazioni da sinistra) che ne viene data dal qualunquismo conservatore; ma il punto, in chiave mediatica, è che nella nuova edizione del Nazional-Popolare lo sdoganamento dell’“Arcitaliano” – nel senso precisato nel libro: del ragionier Fantozzi di Paolo Villaggio (p.25), indiscusso alfiere del trash –, poteva sfruttare la scia dei programmi di larghissima audience del monopolio televisivo per aggiungervi (decisivamente) il format processuale, sbracato-pluralista, destinato a straordinarie fortune negli anni successivi.
Questo è tuttavia soltanto un lato della medaglia, in quanto la sperimentazione della Sinistra Televisiva non si è mossa su un solo terreno: mentre con Biscardi si puntava al bersaglio grosso, inseguendo miti e passioni di larghissimo consumo, l’altro filone che caratterizza la produzione di Rai 3 è quello colto-ironico che, oltre a patrocinare la “satira”, ha la sua espressione più efficace e giustamente famosa in Blob (1989): programma che, scrive Panarari, “si avvale direttamente della tecnica debordiana del détournement, ossia del recupero di materiali culturali e del loro reindirizzamento verso un fine differente da quello di partenza” (p.59). Infatti Blob (titolo di un film di dozzinale fantascienza del ’58, sottotitolo Il fluido mortale) riassume in sé, come un manifesto o forse, più propriamente, come un’allegoria, il duplice sperimentalismo di Rai 3: la melassa invadente (la “bassa cultura”) trattata con ironia, e l’ironia condannata a convivere per sempre con la melassa, che infine tutto – alto e basso, sotto e sopra, kitsch e cult – senza scampo avvolge e travolge. Ed anche qui, all’operazione arride il successo: in pochi anni lo “share” del Terzo canale Rai passa dal due al dieci per cento. Sono gli anni (1987-1994) della direzione di Angelo Guglielmi, personalità per nulla assimilabile – lui proveniente dalle fila del Gruppo 63 e della cosiddetta Neoavanguardia – alle grigie eminenze del sottogoverno o dell’ingessato giornalismo che prima avevano occupato le poltrone dirigenziali della televisione di stato (durante la sua direzione sono prodotti “Quelli che il calcio”, “La TV delle ragazze”, “Avanzi”, “Samarcanda”, “Blob”, “Telefono giallo”, “Mi manda Lubrano”, “Chi l’ha visto?” e “Un giorno in pretura”). Che nel libro di Panarari non se ne parli, stupisce assai e fa pensare che lo strapotere del trash e l’annesso primato spettacolare delle reti private abbiano finito per mettere in ombra, nella prospettiva del critico, il ruolo e il progetto di una parte tutt’altro che trascurabile della Sinistra erede del partito di Gramsci. Il fatto che quella Sinistra si presentasse (e tuttora si presenti) attraverso un canale pubblico e ufficialmente appaltato all’Opposizione va letto in stretto parallelo con il vittorioso affermarsi della “congiura” sul versante delle tv commerciali, il cui appeal pseudo-emancipante era molto più funzionale al “nuovo ordine” fondamental-liberista – o meglio “neoliberalista”, secondo l’importante correzione di Luciano Gallino, p.5 – ormai diventato ideologia di massa: la dialettica che s’instaura tra i due poli tende infatti alla legittimazione reciproca, ma alla parte “statale” tocca la carta perdente proprio perché situata nel blocco conservatore, connotato nel senso della “vecchia politica”. Dir questo non significa, però, equiparare semplicisticamente l’operazione culturale tentata dalla Sinistra al “colpo di stato perfetto, soft e postmoderno” (p.4) dell’ideologia trionfante, né sottovalutarne l’importanza, quanto piuttosto rimarcarne i limiti, le complicità e le debolezze costitutive.
La sinistra non dormiva: guardava la televisione. L’enfasi esclusiva posta da Panarari sui mass-media ripete la centralità e insieme riflette specularmente, in chiave critica, l’appiattimento del discorso (non solo teorico ma fattuale) del riformismo post-comunista e (per l’appunto) progressista su forme e contenuti della “modernizzazione”. All’esclusività dell’attenzione rivolta ai media qui corrispondono zone sempre più vaste di rimozione, alla cui riuscita contribuisce non poco l’entusiasmo dei neofiti che cercano una sanzione pubblica del proprio disincantato superamento delle arcaiche, deprimenti ideologie del Secolo Breve: l’identificazione del fronte dei mass-media come l’unico decisivo consente, d’altronde, di saldare la vecchia concezione “dall’alto” della politica (intesa come lotta per il Potere) con i nuovi strumenti di manipolazione e mistificazione della sfera pubblica, in una spirale di auto-accecamento che toglie il terreno sotto i piedi a una vera pratica riformista. Così mentre la società cambiava in profondo, mentre il lavoro si trasformava e con esso le forme dello sfruttamento, mentre la democrazia italiana assumeva tratti per un verso sudamericani (vedi l’origine argentina della P2), e per un altro inseguiva confusamente la caricatura del modello statunitense, la sinistra non trovava di meglio che farsi complice preterintenzionale dei propri avversari. Neanche il fenomeno che nell’Egemonia sottoculturale è visto come proprio dell’ambito televisivo, l’opinionismo, è stato infatti un’invenzione dei congiurati di destra, bensì uno dei prodotti di punta del Progressismo: la patria dei “fast thinkers” (per sfruttare la citazione di Panarari da Pierre Bourdieu), in altre parole degli “intellettuali produttori di idee precotte e confezionate, da consumare velocemente come in un fast food” (p.116), non sono soltanto i salotti televisivi; anzi essi, con la loro mimica del conflitto, sono il corrispettivo “animato” di quanto viene quotidianamente offerto (e sempre più “gridato”) sulla stampa. Anche in questo la Sinistra ha svolto una funzione di aggiornamento a cui solo in un secondo tempo la Destra italiana, attardatasi a lungo su moduli legati a vecchi schemi di comportamento, ha finito per adeguarsi.
Opinionismo, intrattenimento, gossip e quant’altro non sono, del resto, fenomeni locali, né recenti. Nonostante nel suo libro il contesto globale e la circostanza storica in cui tutto ciò si colloca sia indicato a chiare lettere in apertura – cioè il momento di “sbarazzarsi (da parte dell’‘establishment’ obbediente alle ‘élite’ e alle ‘superclassi’) del vecchio compromesso socialdemocratico e dello Stato sociale”, p.5 – l’ottica prevalentemente nazionale di Panarari finisce per evitare alcune scomode domande: per esempio, in quanti paesi le varie sinistre hanno saputo proporre un uso dei media, e in particolare della televisione, tale da opporsi validamente a quella che egli chiama Sottocultura? Quante emittenti si sono dimostrate capaci di fornire un’informazione non conforme agli standards e ai format spacciati su scala globale? E non è forse vero che le eccezioni positive si sono date per lo più nell’ambito dei “servizi pubblici” meno condizionati dalle partitocrazie? Quest’ultima osservazione dovrebbe pur indurre a qualche ragionamento, e magari a ripensare la nozione stessa di Sottocultura (si ricordi la Teoria della Halbbildung di Adorno, 1959, di recente riproposta da Giancarla Sola per Il Melangolo). A farla breve: poco c’entra, in questa storia, il sonno della ragione che genera mostri evocato da Panarari (p.123), e c’entra molto di più, invece, l’assenza di un progetto riguardante la società nel suo complesso, così come la mancata riflessione su cosa esattamente sia la democrazia nell’era dei media: di qui, l’adesione ai modelli dell’avversario con l’ingenua pretesa di volgerli a proprio vantaggio, insediandosi negli spazi concessi e accettando come naturali la pratica della spartizione e del compromesso. Alla caduta del Muro, era già troppo tardi: il Pensiero Unico non aveva rivali e nemmeno veri interlocutori, ma solo cauti produttori di sfumature, lodatori del tempo andato e ilari liquidatori dell’eredità di qualche secolo di lotte per l’uguaglianza. Non sarà unicamente per questo che la deriva del liberismo ha finito per travolgere i progressisti, ma parlare di “congiura” – espressione usata da Panarari con giudiziosa riserva – può essere un modo per non approfondire le ragioni e i micidiali sviluppi di un fallimento tanto vasto quanto pericoloso, che ha riaperto le porte alle forme più arcaiche di sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Non è davvero il caso, pertanto, di farsi prendere in giro dai nipotini dei Situazionisti e dai loro trucchi da apprendisti stregoni, assai meno originali di quanto dica la leggenda. Una volta riconosciute le complicità come i meriti (quando ci sono: per esempio il giornalismo d’inchiesta di ambito Rai, che ha una sua solida tradizione), sarebbe più istruttivo rivisitare gli scenari storici offerti dal secolo trascorso, traguardando dal crinale attuale gli altri crinali della nostra eternamente incompiuta, feroce e tragica modernizzazione. Omettendo l’apporto del nostranissimo Fascismo, tra l’epoca di “Politecnico” (“nata nel 1945 e defunta nel giro di poco, nel 1947, lasciando un segno tuttavia rilevante”, scrive en passant Panarari, p.18) e quella di Drive in, un passaggio cruciale è negli anni sessanta, l’epoca del primo Neocapitalismo: è lì che alcuni dei nodi ideologici di fondo sul tema dello “sviluppo”, sulla “industria culturale” e sul riformismo affiorano e s’intrecciano in modo esemplare tra equivoci, intuizioni e contraddizioni tuttora irrisolte (chi oggi volesse farsi un’idea tanto delle qualità che dei limiti del progetto progressista italiano in materia di Comunicazione, può farlo rileggendo Apocalittici e integrati di Umberto Eco, 1965, assai più influente per la Sinistra in questione che non Debord). A quegli anni risale anche un’altra ambigua e interessata rimozione, operata da sinistra mediante la citazione a titolo di aristocratico e nichilista rifiuto del progresso: quella del pensiero critico e di tutta una straordinaria tradizione di pensatori che aveva vissuto l’avvento della società di massa e visto dispiegarsi la potenza dei media, tra l’Europa degli anni trenta e gli Usa dei quaranta e oltre; non solo la Scuola di Francoforte ma Simmel, Kracauer, Benjamin, Arendt, Anders e numerosi altri, molti dei quali allenati a lavorare in équipe, soggetti di un lavoro collettivo che si sviluppò a stretto contatto di insigni istituzioni capitalistiche e all’interno di non meno famose imprese statunitensi. Se si prova a pensare a qualcosa di analogo, in Italia, bisogna fare i casi di esperienze tra loro diverse, ma entrambe ignorate o addirittura ostracizzate dalla sinistra ufficiale: il lavoro intellettuale svolto nell’ambito di “Comunità” e della Olivetti, e quello del gruppo di “Quaderni Rossi” di Renato Panzieri. In questo senso, va preso sul serio l’appello conclusivo del libro di Panarari a riabilitare la funzione degli intellettuali (“coloro la cui sola esistenza desta la reazione rabbiosa e la bava alla bocca del neopopulismo che si è pesantissimamente insinuato nel corpo sociale nazionale”, p.128); ma non basta ora, come non è mai bastato, saper fare “in maniera capace e creativa il (…) lavoro di inventori di architetture simboliche alternative a quelle vittoriose e tracotanti dell’egemonia sottoculturale” (p.130). Più che alle architetture (e alle “narrazioni” tanto di moda), è alle fondamenta che si deve lavorare, nei luoghi visibili e invisibili dove i segni della contraddizione vanno conosciuti e interpretati ex novo, lontano dalle abbaglianti locations del potere e dai suoi giullari di destra e sinistra, così simili tra loro.
[pubblicato su "Lo straniero", N. 126-127, dicembre-gennaio 2010/11]
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