14.1.11

I professionisti dell'antimafia (Leonardo Sciascia)


Il 10 gennaio 1987 uscì sul "Corriere della sera" un lungo articolo di Leonardo Sciascia intitolato I professionisti dell'antimafia. Lo scrittore di Racalmuto, prendendo le mosse dal saggio di uno storico inglese sui rapporti mafia-fascismo, rifletteva sul presente e indicava il rischio che intorno all'antimafia si costruissero icone intoccabili e rapide carriere. All'articolo, che esemplificava la sua tesi nelle figure di Leoluca Orlando, al tempo sindaco di Palermo, e di Paolo Borserllino, seguirono dure repliche e pesanti accuse di tradimento. Lo riproduco qui ad uso di quei frequentatori del blog che non si contentino delle sintesi  e preferiscano una conoscenza completa del ragionare di Sciascia. (S.L.L.)
Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denominarono "eroi della sesta".
1. "Da questo stato d'animo sorse, improvvisa, la collera. Il capitano sentì l'angustia in cui la legge lo costringeva a muoversi; come i suoi sottufficiali vagheggiò un eccezionale potere, una eccezionale libertà di azione: e sempre questo vagheggiamento aveva condannato nei suoi marescialli. Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti... Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto [...] sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso." (Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961.)
2. "Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia: ma io sono ugualmente inquieto." (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966.)
Esibite queste credenziali che, ripeto, non servono agli attenti e onesti lettori, e dichiarato che la penso esattamente come allora, e nei riguardi della mafia e nei riguardi dell'antimafia, voglio ora dire di un libro recentemente pubblicato da un editore di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro: Rubbettino. Il libro s'intitola La mafia durante il fascismo, e ne è autore Christopher Duggan, giovane ricercatore dell'Università di Oxford e allievo di Denis Mack Smith, che ha scritto una breve presentazione del libro soprattutto mettendone in luce la novità e utilità nel fatto che l'attenzione dell'autore è rivolta non tanto alla "mafia in sé" quanto a quel che "si pensava la mafia fosse e perché": punto focale, ancor oggi, della questione: per chi si capisce sa vedere, meditare e preoccuparsi; per chi sa andare oltre le apparenze e non si lascia travolgere dalla retorica nazionale che in questo momento del problema della mafia si bea come prima si beava di ignorarlo o, al massimo, di assommarlo al pittoresco, al colore locale, alla particolarità folcloristica.
Ed è curioso che nell'attuale consapevolezza (preferibile senz'altro anche se alluvionata di retorica all'effettuale indifferenza di prima) confluiscano elementi di un confuso risentimento razziale nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e si ha a volte l'impressione che alla Sicilia non si voglia perdonare non solo la mafia, ma anche Verga, Pirandello e Guttuso.
Ma tornando al discorso: non mi faccio nemmeno l'illusione che quei miei due libri, cui appartengono i passi che ho voluto ricordare, siano serviti a parte i soliti venticinque lettori di manzoniana memoria (che non era una iperbole a rovescio, dettata dal cerimoniale della modestia: poiché c'è da credere che non più di venticinque buoni lettori goda, ad ogni generazione, un libro) siano serviti ai tanti, tantissimi che l'hanno letto ad apprender loro dolorosa e in qualche modo attiva coscienza del problema: credo che i più li abbiano letti, per così dire, "en touriste", allora; e non so come li leggano oggi. Tant'è che allora il "lieto fine" - e se non lieto edificante era nell'aria, per trasmissione di potere a quella cultura che, anche se marginalmente, lo condivideva: come nel film "In nome della legge", in cui letizia si annunciava nel finale conciliarsi del fuorilegge alla legge.
Ed è esemplare la vicenda del dramma La mafia di Luigi Sturzo. Scritto nel 1900, e rappresentato in un teatrino di Caltagirone, non si trovò tra le carte di Sturzo, dopo la sua morte, il quinto atto che lo completava; e lo scrisse Diego Fabbri, volgarmente pirandelleggiando e con edificante conclusione. Ritrovati più tardi gli abbozzi di Sturzo per il quinto atto, si scopriva la ragione per cui la pièce era stata dal suo autore chiamata dramma (il che avrebbe dovuto esser per Fabbri avvertimento a non concluderla col trionfo del bene): andava a finire male e nel male, coerentemente a quel che don Luigi Sturzo sapeva e vedeva. Siciliano di Caltagirone, paese in cui la mafia allora soltanto sporadicamente sconfinava, bisogna dargli merito di aver avuto chiarissima nozione del fenomeno nelle sue articolazioni, implicazioni e complicità; e di averlo sentito come problema talmente vasto, urgente e penoso da cimentarsi a darne un "essemplo" (parola cara a san Bernardino) sulla scena del suo teatrino. E come poi dal suo partito popolare sia venuta fuori una democrazia cristiana a dir poco indifferente al problema, non è certo un mistero: ma richiederà, dagli storici, un'indagine e un'analisi di non poca difficoltà. E ci vorrà del tempo; almeno quanto ce n'è voluto per avere finalmente questa accurata indagine e sensata analisi di Christopher Duggan su mafia e fascismo.
L'idea, e il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l'istanza rivoluzionaria degli ex combattenti, dei giovani che dal partito nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell'invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell'ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero, un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi "risorgimentali" - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l'arresto di Alfredo Cucco (figura del fascismo isolano, di linea radical borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese e promosse nei suoi ranghi).
Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange "rivoluzionarie" per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano a garantire al fascismo almeno l'immagine di restauratore dell'ordine pubblico liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti.
E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri (che Mori andava solennemente decorando al valor civile nei paesi "mafiosi"): che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione di Mori, insostituibile elemento a consentire l'efficienza e l'efficacia del patto. Mori, dice Duggan, "era per natura autoritario e fortemente conservatore", aveva "forte fede nello stato", "rigoroso senso del dovere". Tra il '19 e il '22 si era considerato in dovere di imporre anche ai fascisti il rispetto della legge: per cui subì un allontanamento dalle cariche nel primo affermarsi del fascismo, ma forse gli valse quel periodo di ozio a scrivere quei ricordi sulla sua lotta alla criminalità in Sicilia dal sentimentale titolo di "Tra le zagare, oltre la foschia", che certamente contribuì a farlo apparire come l'uomo adatto, conferendogli poteri straordinari, a reprimere la virulenta criminalità siciliana.
Rimasto inalterato il suo senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo in cui il fascismo andava configurandosi, l'innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c'è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell'opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole.
Sicché se ne può concludere che l'antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all'ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come "mafioso". Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno. Ed è da dire che il senso di questo rischio, di questo pericolo, particolarmente aleggia dentro la democrazia cristiana: et pour cause, come si è tentato prima di spiegare. Questo è un esempio ipotetico.
Ma eccone uno attuale ed effettuale. Lo si trova nel "Notiziario straordinario" n. 17 (10 settembre 1986) del Consiglio superiore della magistratura. Vi si tratta dell'assegnazione del posto di procuratore della repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino e della motivazione con cui si fa proposta di assegnarglielo salta agli occhi questo passo: "Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il 'superamento' da parte del più giovane aspirante."
Passo che non si può dire un modello di prosa italiana, ma apprezzabile per certe delicatezze come "la diversa anzianità", che vuol dire della minore anzianità del dottor Borsellino, e come quel "superamento" (pudicamente messo tra virgolette), che vuol dire della bocciatura degli altri più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto. Ed è impagabile la chiosa con cui il relatore interrompe la lettura della proposta, in cui spiega che il dottor Alcamo che par di capire fosse il primo in graduatoria è "magistrato di eccellenti doti", e lo si può senz'altro definire come "magistrato gentiluomo", anche perché, con schiettezza e lealtà ha riconosciuto una sua lacuna "a lui assolutamente non imputabile": quella di non essere stato finora incaricato di processi di mafia. Circostanza "che comunque non può esser trascurata", anche se non si può pretendere che il dottor Alcamo "pietisse l'assegnazione di questo tipo di procedimenti, essendo questo modo di procedere tra l'altro risultato alieno dal suo carattere". E non sappiamo se il dottor Alcamo questi apprezzamenti li abbia quanto o più graditi rispetto alla promozione che si aspettava.
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di "magistrato gentiluomo", c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?

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