Augusto Illuminati, sociologo e ideologo di studi seri e intuizioni intelligenti, fu prima dirigente della Fgci, poi passò alla Quarta e da quartino trotzkista diresse nel 1966-67, insieme a Lucio Colletti e Silverio Corvisieri, La Sinistra mensile. Il periodico, edito da Giulio Savelli, in Italia per primo pubblicò “da un altro Vietnam” il celebre appello del Che, Crear dos, tres, muchos Vietnam, quello che meritò a Guevara l’epiteto di “stratega da farmacia” affibbiatogli da Giorgio Amendola in un Comitato centrale del Pci. Illuminati si avvicinò poi al maoismo. In quegli anni circolò su di lui una leggenda che lo accomunava a Claudio Petruccioli: si diceva che i due portassero male, ma proprio male. La cosa ovviamente era del tutto falsa, almeno per Augusto Illuminati. E’ anche per sfidare la superstizione e la scalogna, che propongo qui un suo testo (da Global Project) che peraltro trovo “illuminante”, il cui titolo nella prima parola, inglese (vale “il futuro” o “in futuro”, ma anche l’aldilà”) allude a un celebre fim con Clint Eastwood. Illuminati, che è attivo come studioso e uomo di sinistra, vede nella straordinaria riuscita della manifestazione del 13 febbraio scorso un segno importante di quel che potrebbe, dovrebbe avvenire. (S.L.L.)
Dopo lo tsunami della richiesta di rinvio a giudizio e della rabbiosa reazione del Caimano contro magistrati e istituzioni abbiamo un assaggio umbratile di futuro come la protagonista dell’inizio del film ha dell’aldilà. Silenzio, luce filtrata, figure familiari ma indistinte. Ci passano davanti ectoplasmi della scena politica italiana: il saggio Presidente che ammonisce gli sfasciacarrozze, il nano pelato con satiriasi bionica, l’astuto Pierferdi, casanova prudente, l’orco devoto in mutande, l’inutile Bersani a maniche rimboccate, il ghignante La Russa in mimetica, il verme Frattini all’improvviso accortosi che il cuore del casino è il Mediterraneo e non Santa Lucia, il trasognato Fini impotente a gestire gli organigrammi del suo neo-partito. Esistono, ma non ci dicono nulla del nostro futuro, se non di un’infinita transizione verso il dissolvimento – dell’economia, dell’unità nazionale, dello spirito civico: qualsiasi cosa significhi! Esistono ma sono scavalcabili, come le patetiche transenne da cui il 13 scorso era blindato Montecitorio. Domina nel palazzo un senso di smarrimento che non lascia presagire nulla di buono, come se il cupio dissolvi dell’opposizione avesse contagiato anche la maggioranza. Stiamo freschi!
Basterebbe leggere fra le righe le dichiarazioni di Maroni, angosciato dall’ottusa complicità di Bossi con un Premier in pieno marasma senile quanto dal fallimento del proprio cattivismo anti-migranti, vanificato dal crollo dei regimi dittatoriali nord-africani e dal dignitoso rifiuto del nuovo governo tunisino a lasciar insediare la nostra polizia sulle loro coste. Del resto, come potrebbero trattenere i disperati all’inferno gli stessi agenti che lasciano uscire, coperti dal Ministro, allegre minorenni dalla Questura di Milano? Maroni teme che pure la Lega potrebbe essere travolta dall’evidente abulia del «governo del fare» e cerca in fretta di uscire dall’edificio prima del crollo: senza ritirare l’appoggio parlamentare, però, il che è alquanto problematico visto che a tutto pensa Berlusconi fuorché a togliere il disturbo dimettendosi. L’insieme in una situazione di incertezza in cui tutti sono ritrosi rispetto alla prospettiva di consultazioni anticipate, non solo per l’incertezza dei risultati, ma in primo luogo per l’apprensione che una campagna elettorale mandi definitivamente in pezzi gli equilibri istituzionali, per la rabbia dell’animale ferito e per l’irruzione sulla scena di soggetti inediti. Non si tratta soltanto della difficoltà di stringere le coalizioni imposte dalla vigente legge elettorale –e qui, ripetiamo, continua ad apparire improbabile e dispersiva di consensi la formazione di uno schieramento che vada dal Pd (con o senza IdV e Sel) a Fini– ma dell’emergere di istanze politiche non controllabili nell’attuale sistema. La diga Tremonti (la vera alternativa cui pensano tutti, l’equivalente dei militari “riformisti” egiziani) potrebbe non reggere.
Con tutti gli equivoci e le contraddizioni evidenti nelle 230 piazze dove si mischiavano ombrellini rossi, Camusso e Bongiorno, beh quel milione di donne c’era, con memorie e idee non condivise, ma senza targhe di partito (non che i leader un po’ inguattati non ci fossero, ma nessuno ci badava tranne le Tv), fluttuante, risentito, arcaico, avvenirista, laico, perbenista, scandaloso, ma c’era e prima o poi vorrà contare. Speriamo prima – quando? adesso! scandivano. In piazza abbiamo visto combattenti con rossetto, non vittime mercificate e umiliate secondo l’iconografia di Repubblica, sollecita ad arruolarle al seguito di un leader “straniero” che di volta in volta sarebbe Saviano o Draghi o l’agnellesco Montezemolo. E non erano certo solo “donne”. C’era una bella componente Fiom, c’erano i precari (non uno spezzone a parte, ma perché l’enorme maggioranza delle folle era composta da precarie, inattive per scoraggiamento, part time, salariate casalinghe non riconosciute), c’erano i movimenti unisex degli studenti e dei ricercatori. Nelle urne tutti costoro, a breve, potrebbero ancora essere omologati nei referenti consueti (e nell’astensione che ne è il corollario), ma alle urne non si arriverebbe in pace rutinaria bensì con un terremoto istituzionale e una campagna lacerante. E allora i nuovi e ancor confusi soggetti (siamo tutti confusi, anche se determinati, ammettiamolo) potrebbero comportarsi in modi imprevedibili, non sideralmente lontani da come hanno fatto di recente gli ex unanimi elettori di Ben Ali e Mubarak.
I sondaggi, che tanto bene fotografano la calma prima della tempesta, ci dicono che Berlusconi è in declino e il centro-destra resta maggioritario, mentre la sinistra scende – con un significativo spostamento dall’anoressico Pd verso componenti più sanguigne. L’arroccamento di Berlusconi sulla prosecuzione della legislatura comprando una manciata di deputati paralizza l’azione di governo ed esaspera lo scontro istituzionale indebolendo nel contempo la stessa coalizione. Risultato inevitabile, se si considera che la ragione prima di tale caparbietà non è una strategia complessiva del centrodestra ma la difesa dell’immunità giudiziaria del Premier, quindi spacca la coalizione e la maggioranza silenziosa del Paese: una maggioranza, appunto, fondata sul silenzioso consumo, non sulla crisi e sulle drammatizzazioni alla Giuliano Ferrara, una maggioranza benpensante, non libertina ed esagitata. Il simmetrico e piuttosto avvilente arroccamento degli antiberlusconiani su Legge e Virtù –un corpo alquanto sessuato, per dirla con pacatezza– non è fatto esattamente per tener dentro l’insorgenza latente di chi si oppone al regime della finanziarizzazione e, in via secondaria ma sintomatica, del bunga-bunga. Queste sono le radici materiali dello scollamento della rappresentanza e della diffusa paura del ceto politico per l’avvenire incombente.
Hereafter. Non stiamo scandagliando l’aldilà, stiamo invece producendo, perplessi e anche noi spaventati, il passaggio nel presente dall’indignazione al tumulto e alla liberazione. In arabo Tahrir, ricordiamolo.
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