12.2.11

Il morto che afferra il vivo (di Renato Covino)

Da “Cassandra” riprendo questo testo di Renato Covino. Risale a una ventina di giorni fa, ma conserva una sua attualità. Al di là dei particolari, su cui si può legittimamente consentire o dissentire, e comunque vadano le cose nella congiuntura politica a me sembra molto convincente la tesi fondamentale. Berlusconi nella sua caduta, inevitabile per quanto ritardata, sta trascinando l’intera società italiana, quel tanto di civiltà che ci resta. Ci lascerà un cumulo di macerie infette (S.L.L.).
Le mort saisit le vif
Karl Marx

Tutto faceva presagire che il 14 dicembre il Cavalier Berlusconi fosse giunto alla fine della sua corsa politica. Così non è stato. Al di là di come ha costruito la sua nuova, risicata maggioranza parlamentare (compravendita di deputati, promesse, etc.) la Camera non ha decretato la sfiducia nei suoi confronti. Ancora, poteva sembrare che sull’onda del voto di fiducia la maggioranza potesse in qualche modo ampliarsi, assicurando al governo se non una navigazione sicura, perlomeno un bordeggiamento tranquillo per qualche mese. La sentenza, per quanto ambigua, della Corte Costituzionale, ma soprattutto il riesplodere dello scandalo della giovane marocchina con cui Berlusconi avrebbe avuto rapporti sessuali mercenari, ha rimesso tutto in discussione. Casini, per quanto tentato, non può in questo clima gestire una marcia di avvicinamento al governo, gli stessi parlamentari disponibili al balzo di “responsabilità” sembrano avere una pausa di riflessione, impauriti che il “sacrificio” non porti loro nessun vantaggio. Tutto sembra congiurare per elezioni anticipate. Del resto le fibrillazioni del paese, il risultato del referendum alla Fiat, il permanere della crisi economica, deporrebbero a favore di questa soluzione. E invece la cosa è meno semplice e più combattuta di quanto appaia. Gli oppositori parlamentari rispolverano la soluzione di un governo diverso, che non significa altro se non un governo di unità nazionale senza Berlusconi, trincerandosi dietro l’autorità del Capo dello Stato, e rientra così dalla finestra quello che era uscito dalla porta con la fiducia parlamentare del 14 dicembre. La stessa maggioranza (tranne la Lega) vede le elezioni come ultima ratio, come soluzione estrema a cui giungere quando si sia verificato in modo palmare che non è possibile andare avanti in altro modo. La tesi è che la situazione critica del paese farebbe delle elezioni una ordalia inutile che è bene evitare.
La convinzione sottesa alle diverse tesi è che sia possibile evitare di scomodare gli elettori. Si badi bene: essa non alligna solo negli schieramenti parlamentari, ma coinvolge anche altri poteri (Confindustria, associazioni dei commercianti, Chiesa, alcuni settori sindacali, etc.). Può darsi che quando Cassandra entrerà in rete l’autocrate di Arcore sia stato costretto a dimettersi e a licenziare il proprio governo, ma è chiaro che il tratto che continuerà a contraddistinguere la situazione politica italiana sarà il clima di sospensione e d’incertezza che ha caratterizzato l’ultimo anno. Se si andrà ad elezioni ciò avverrà più per necessità che per scelta. La questione da spiegare è appunto questa, cercando di comprendere se essa risponda a dati congiunturali o a ragioni più profonde, per così dire strutturali.

1.
C’è un elemento da tenere presente, che per alcuni aspetti prescinde dallo stesso andamento della crisi economica internazionale e dai processi legati a quella che viene definita la globalizzazione. Si tratta di quel fenomeno che Luciano Gallino ha definito la fine dell’Italia industriale. In sintesi, oggi l’Italia è fuori dai settori di punta della produzione e quando ci sono stabilimenti operanti in tali comparti essi sono di proprietà di società multinazionali e si configurano come appendici produttive di centri di progettazione e ricerca collocati altrove. Così è per la siderurgia e la chimica, per la telefonia, per il settore energetico, per l’informatica, per l’ingegneria genetica, per la farmaceutica e rischia di divenire realtà nella stessa produzione automobilistica. E’ questo il frutto non solo delle regole di mercato, delle croniche insufficienze del capitalismo privato italiano, ma anche delle politiche di privatizzazione del settore pubblico realizzate tra la fine degli anni ‘80 e negli anni ‘90 del Novecento dalla presidenza Prodi dell’Iri e continuate, sia pure in tono minore, negli anni successivi. Il risultato è stato lo sfarinamento di settori decisivi delle classi dominanti: la grande industria privata e la cosiddetta borghesia di Stato. Lo stesso processo è avvenuto nel settore bancario sotto l’impulso delle nuove regole europee. Oggi il potere di controllo della Banca d’Italia non esiste più, le grandi banche ne sono azioniste e rappresentano il fulcro della cabina di regìa dei processi finanziari e creditizi. Infine, il settore delle public utilities (acqua, luce, gas, energia, trasporti) è stato sottoposto, grazie ad una legislazione ispirata soprattutto dal centrosinistra, a massicce privatizzazioni.
Il risultato di questi processi è stato un progressivo spappolamento delle classi dirigenti, una diminuzione delle capacità del paese di fare industria e impresa, grazie alla fine degli elementi permissivi (gli aiuti pubblici, l’energia a basso costo, i semilavorati a prezzi politici, il credito a buon mercato, etc.) che avevano consentito la fase di crescita post bellica e l’inserimento sia pure in posizione subalterna (i beni di consumo durevoli) nella divisione internazionale del lavoro e l’affermarsi di un’imprenditoria che, per quanto fosse contrassegnata da tutti i difetti della sua storia e dalle sue croniche fragilità, pure appariva in grado di realizzare profitti e crescita economica. Il risultato è stato una classe dominante che, per quanto destinataria di un enorme spostamento di ricchezza realizzatosi nel ventennio trascorso(il +10% drenato dalle tasche dei lavoratori dipendenti), appare meno autorevole e capace. La diffusione della piccola e media impresa e del popolo delle partite Iva, il potere crescente della banca, la bolla edilizia e il ruolo dei settori legati alla rendita immobiliare e alle costruzioni, i poteri criminali, configurano un sistema acefalo e magmatico che non definisce un blocco sociale e di potere coeso, ma soprattutto privo di un centro di gravità capace di tenerlo assieme e farlo pesare. Lo stesso sconcerto con cui Confindustria guarda le evoluzioni di Marchionne la dice lunga sul peso politico-sociale che hanno oggi i ceti proprietari.

2.
Un altro elemento strutturale che spiega l’attuale situazione d’incertezza è relativo al blocco sociale alternativo, ai lavoratori di fabbrica e ai ceti popolari. Ebbene, i mutamenti del ventennio hanno disarticolato quello che era l’insediamento sociale della sinistra. La fine e/o il ridimensionamento della grande impresa ha significato anche l’isolamento e la perdita di peso del segmento centrale della classe operaia. La diffusione della rete delle piccole e medie imprese ha permesso una sorta di coesistenza pacifica tra imprenditori e lavoratori. La precarizzazione del lavoro in buona parte dei servizi, ma anche della produzione, ha bloccato ogni capacità di contrattazione in comparti consistenti del mondo del lavoro. Non solo si è assistito ad un impoverimento relativo dei ceti popolari e di parte del ceto medio, ma anche ad un mutamento dei suoi orientamenti politici, ad una sorta di schizofrenia (soprattutto a Nord) tra atteggiamento sindacale (iscrizione alla Cgil) e voto (alla Lega). C’è da considerare che la questione diviene rilevante nel momento in cui i ceti subalterni non sono più – come avrebbe detto Schumpeter – “etnicamente puri”, ma appaiono profondamente modificati dai flussi migratori su cui si innestano umori ed ideologie xenofobe che hanno un corso ben più ampio della predicazione leghista.

3.
Il terzo dato che contraddistingue il periodo è rappresentato dalla crisi ormai cronica dello Stato, in quella che abbiamo più volte definito crisi di regime. Sia ben chiaro: l’epoca berlusconiana non ha prodotto una nuova saldatura di poteri, un cambio di regime, la crisi è la lunga coda della dissoluzione del regime costruito dalla Dc. Fatto sta che a partire da tangentopoli non è cresciuto un nuovo modo di funzionare delle macchine pubbliche. Le liberalizzazioni e gli alleggerimenti legislativi del peso delle corporazioni sono stati fortemente contrastati da tassisti, farmacisti, notai, avvocati, etc., le cosiddette riforme si sono progressivamente arenate di fronte a resistenze interne agli apparati, la variazione delle leggi elettorali rispondono non tanto a criteri di efficienza, quanto agli interessi dello schieramento vincente, lo stesso bipolarismo oggi appare in crisi. La seconda Repubblica non è mai nata, nonostante che la legislazione europea ne favorisse l’avvento e malgrado che lo sforzo di produzione legislativa in Italia sia stato notevole ed orientato in direzione di un rafforzamento degli esecutivi. La stessa revisione della seconda parte della Costituzione ha incontrato più di un ostacolo e, peraltro, sarebbe necessaria quella che Marx, sfottendo gli esponenti della sinistra hegeliana, chiamava “mediazione della mediazione” per tenere insieme il progetto federalista con il rafforzamento del ruolo dei poteri centrali. Insomma, una soluzione di democrazia autoritaria, che la stessa sinistra moderata era disponibile ad accettare, facendosene per molti aspetti alfiera, che avrebbe trovato sponde in Europa, nel corso dell’epoca berlusconiana non si è affatto realizzata, mentre continua lo scontro ormai permanente tra poteri dello Stato (governo e magistratura).

4.
Tutto ciò spiega la congiuntura politica attuale, il motivo per cui tutte le volte che Berlusconi sembra sull’orlo del precipizio trovi il modo di cavarsela.
La destra, che avrebbe tutte le convenienze a liberarsi dell’anziano leader, non ha la forza di farlo. Non l’ha per il fatto che il miliardario di Arcore rappresenta una coperta che, per quanto corta, è l’unica disponibile elettoralmente e dal punto di vista del consenso sociale. La vischiosità del blocco dominante, l’indeterminatezza di quello che prima si definiva il suo centro di gravità, presuppone una sorta di populismo qualunquista che è il contrario di uno Stato forte ed autorevole (o autoritario). Il rischio, eliminato Berlusconi, è quello di una disarticolazione della destra, di una sua implosione con un aumento dei livelli di ingovernabilità. Né c’è da pronosticare nel breve periodo uno spostamento elettorale di qualche rilevanza dal Popolo della Libertà al “terzo polo”, che al più può determinare una ulteriore frammentazione politica.
D’altro canto, il Pd persegue un progetto già morto che è quello di un patto dei produttori che coinvolga Marchionne e operai Fiat, partite Iva e lavoratori precari. Ciò sarebbe possibile solo se i protagonisti dell’intesa fossero entrambi forti, cosa che appare allo stato attuale dei fatti priva di consistenza.
Ciò spiega i motivi per cui nessuno (compresa la stessa Lega) vorrebbe oggi andare ad elezioni. E’ questo che costituisce la vera rendita di posizione di Berlusconi al di là del grande potere mediatico, economico e finanziario che  ancora detiene. Insomma, l’autocrate di Arcore è al tempo stesso un problema ed una soluzione e, dato quello che c’è in gioco, è improbabile che si faccia da parte spontaneamente. E’ politicamente morto, ma continua a sopravvivere a se stesso, un po’ come Tito o Franco tenuti artificialmente in vita per evitare guai maggiori, che sarebbero comunque arrivati alla loro scomparsa.

5.
Come diceva un vecchio saggio esiste, tuttavia, pur sempre una logica oggettiva delle cose. Berlusconi è comunque sotto scacco. Le sue ultime vicende giudiziarie, al di là dell’esito processuale, lo mettono in una condizione di minorità: può sopravvivere, ma difficilmente riuscirà a governare. D’altro canto, non sembra realistico che nella situazione attuale si possa andare ad un governo che elimini la sua ingombrante presidenza, sostituendolo con Letta, Alfano o Tremonti. Insomma, l’ipotesi più probabile è che prima o poi si vada ad elezioni anticipate, nonostante che tutti vogliano evitarle.
Se questo avvenisse è possibile che, stante la legge elettorale attuale, non ci siano maggioranze certe in entrambi i rami del Parlamento. Arbitro in tale situazione diverrebbe il “terzo polo”, che difficilmente potrebbe accettare una nuova presidenza Berlusconi. Ciò comporterebbe per il Popolo della Libertà un processo di disgregazione che affosserebbe definitivamente il disegno bipolare inseguito da Pdl e Pd con tenacia degna di miglior causa.
Non sarebbe migliore la situazione del principale partito di opposizione che è sempre più esposto a tensioni laceranti e che sarebbe anch’esso sottoposto a frammentazioni destinate a disgregarlo.
C’è da augurarsi un quadro di questo genere? A parere di chi scrive il bing bang del sistema politico, così come si è andato configurando da almeno sedici anni, è un’opportunità per la sinistra per almeno due motivi. Il primo è che allontanerebbe la soluzione di una democrazia autoritaria, un’uscita a destra dalla crisi. Il secondo è che priverebbe il blocco dominante della coperta che finora è riuscita, sia pur malamente, a tutelarlo. Ciò potrebbe riaprire spazi alle aree di resistenza popolari ed operaie, ridare fiducia ai settori del movimento sindacale non disponibili a cedere sul terreno dei diritti, delle garanzie e delle tutele.
Naturalmente, ciò presupporrebbe che si costituisse almeno un presidio di sinistra nel paese capace di una proposta e di un disegno strategico. Da questo punto di vista non v’è dubbio che la situazione è tutt’altro che felice. Vendola – nonostante il carisma e l’ abilità tattica – appare come un brillante generale senza esercito, capace, forse, di vincere battaglie, ma di cui è lecito pensare che difficilmente sia in grado di vincere la guerra. La Federazione della Sinistra, per contro, non sembra avere altro problema se non quello di salvaguardare, sia pure in forma ridotta, la sua presenza politica, senza porsi il problema della propria utilità. Le altre formazioni sembrano al più in grado di assicurare una testimonianza, non certamente una politica. Insomma, occorreranno tempo, luoghi di aggregazione, un dibattito serrato, strumenti per rimettere insieme un decente schieramento della sinistra capace di interpretare e far pesare un popolo. C’è solo da augurarsi che gli eventi del prossimo futuro concedano un tempo sufficiente per portare avanti un’ipotesi di questo genere e che ci sia una reazione culturale, politica e militante allo stato di cose presente.

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