Museo d’ombre è il volumetto di Gesualdo Bufalino che raccoglie in frammenti le sue memorie del paese natìo, Comiso. Nella prefazione, stilisticamente pregiata, l’autore racconta l’origine del libello. Accenna al conflitto (quasi inevitabile per chi vive a lungo in un certo luogo), rievoca l’armistizio tra lo scrittore e il paese, informa del progetto non realizzato di redigere di Comiso una sorta di “catasto affettivo” e di realizzarne il “ritratto fantastico-storico” in una sua giornata degli anni trenta attraverso un “sortilegio spontaneo d’ombre cinesi che si dipanassero adagio, l’una dopo l’altra, su di un muro”.
I frammenti che compongono il libro sono definiti “sbiaditi graffiti”, istantanee, “vicine non meno al sorriso che alle facilissime lacrime”. A me sembrano invece piccoli capolavori che andrebbero salvati dall’oblio e indicati a modello per la capacità di temperare la nostalgia con l’ironia e di saggiare attraverso oggetti limitatissimi le incommensurabili risorse della scrittura.
Mi è già capitato di “postare” in questo blog un brano dalla sezione Luoghi di una volta, sull’aeroporto Magliocco poi divenuto base missilistica (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/09/laeroporto-vincenzo-magliocco-di.html); oggi da quella sezione recupero quattro “ombre”, una più suggestiva dell’altra. (S.L.L.)
I pupiddi ri Canicarau |
I PUPIDDI RI CANICARAU. I piccoli pupi di Canicarao
Due sfere lisce di solida pietra in cima a due pilastri segnarono e vietarono a lungo i confini del leggendario reame dei marchesi di Canicarao. Una strada, poco più che una mulattiera, conduceva gli audaci fino al castello: col suo blasone scolpito, l’immensa porta carraia, la vasca dei pesci rossi all’ombra di un platano scuro. Bastò crescere un poco e i pupiddi caddero nella polvere, i pesci morirono, il castello languì nella mente e negli occhi, divenne quello che era sempre stato: una vecchia fatiscente bicocca, scolorata dal sole e lapidata dal vento.
‘A BBIVIRATURA. L’abbeveratoio.
Asini, muli e cavalli impararono a farvi sosta quando uscivano all’alba, o rientravano, assetati alla fine della giornata. Non fu luogo pulito né ameno. E tuttavia chi fosse riuscito a varcare senza danni lo strato di pattume che copriva l’acciottolato ed issarsi fino a toccare con le labbra una delle dieci zampillanti cannelle, sentiva di attingere in quel sorso di diaccio elisire il profondo e furtivo cuore della sua odiosamata città.
‘U SIGNIRUZZU TRUVATU. Il dolce signore ritrovato.
Nel 1822 dal duomo di Scicli scomparve una pisside d’oro, piena di ostie consacrate. Fu ritrovata miracolosamente da una bambina in cerca di asparagi nella campagna di Comiso, dove il sacrilego ladro l’aveva sepolta. Sul posto fu eretta una chiesuola, e durante molti anni vi si celebrarono messe speciali per contadini e villeggianti; messe di voto, di ringraziamento, di scongiuro. Nei giorni di siccità, in guerra contro le ostinazioni del sole, una donna passava di soglia in soglia a raccogliere l’olio per le lampade dell’altare. Qualche vecchio se ne ricorda ancora: “Cu ci adduma a lampa o Signiruzzu Truvatu?” (“Chi accende una lampada al dolce Signore ritrovato?”).
La chiesa ora è chiusa, la chiave arrugginisce in un profondo cassetto.
‘U QUARTIERI RU PIRU. Il quartiere del pero.
Un gomitolo di vicoli; tetti che si toccano e nascondono il cielo; case di una sola stanza dove la orta è insieme ingresso e finestra; e davanti ogni soglie stie col fondo coperto di zacchere secche e grappoli di donne, coi folti capelli neri raccolti a crocchia sulla nuca, attorno a un merciauolo ambulante; e gatti, capre, mule, galline in tranquillo congresso, in mezzo alla strada; e un bambino vestito di niente, gloriosamente accovacciato sotto la pergola di un gelsomino…
Nessun commento:
Posta un commento