Cercando nuove di Andrea Inglese, di cui conosco qualche prova poetica molto interessante, ho trovato su “Nazione Indiana”, un eccellente sito di letteratura e altra cultura, questo articolo sul “precariato” nelle università italiane ed europee, che in forma lievemente diversa era già uscito sul numero 3 di “alfabeta 2”. Per quel che mi ricordo già ai tempi della mia università (40 anni fa) era una specie assai diffusa quella, invero mostruosa, dell’accademico bifronte, democratico e progressista nella società e per le rivendicazioni studentesche, baronale e reazionario con i propri precari nell’istituzione (facoltà, dipartimento o comunque si chiami adesso). Forse qualche elemento “feudale” è insito nell’istituzione università, legato alla sua nascita. Ma i 20 o 30 anni di precariato che oggi non fanno scandalo, forse sono davvero una mostruosità. (S.L.L.)
Il precariato accademico non è in fondo poi diverso dalle altre forme di precariato. Anche in questo caso ti trovi di fronte a un tizio che, con aria affabile, ti spiega come qualmente sia del tutto ovvio che tu, pur facendo grosso modo il suo stesso lavoro, vieni però pagato un terzo, non hai ferie e tredicesima, e soprattutto puoi essere messo alla porta in qualsiasi momento. Se poi ti viene da pensare «Ma sei un bello stronzo!», bisogna che ti guardi bene dal dirlo, perché a differenza di un qualsiasi datore di lavoro o semplice superiore, nel mondo accademico il professore ordinario è generalmente un progressista, avverso al dispregio dei diritti umani, e perfettamente capace di sottrarti anche quel terzo di stipendio che stai cercando con premurosa umiltà di guadagnarti.
Ma andiamo con ordine. A tutti noi sta a cuore la salute dell’università, e sarebbe intellettualmente sterile lasciarsi andare all’evocazione di un’aneddotica poco gloriosa, risaputa, e tinteggiata di grottesco.
Sono ormai passati sei o sette anni, da quando sentii utilizzare per la prima volta la categoria di «precariato accademico». Era un’amica storica, docente in un prestigioso istituto universitario francese, che l’applicava al mio caso, incoraggiandomi a perseverare attraverso questa fase impervia. La nuova formula – non si parlava di «precariato» tutti i cinque minuti come accade oggi – ebbe su di me un immediato effetto anestetico e anche un po’ euforizzante. Cullato in questo vasto aggregato sociale, perdevo tutti quegli aspetti che fino ad allora avevano determinato i miei rapporti con la professione accademica: sfiga personale, incompetenza tattica, ignoranza malcelata, vistosi deficit intellettuali, diplomazia di un rapinatore. Mi ero sentito fino a quel giorno un semplice escluso dalla professione universitaria, uno di quei tanti che non ce la faceva, che non ce l’aveva ancora fatta, che forse non ce l’avrebbe fatta mai. (Naturalmente insegnavo e scrivevo articoli, partecipavo a convegni e compulsavo gli archivi, ma nella solita condizione di «un terzo di stipendio» e «in ogni momento allontanabile»). Ora di colpo mi pioveva sul capo un’etichetta che aveva un vantaggio psicologico non indifferente: non ero più solingo nella mia vergogna e colpevolezza. Entravo a far parte, infatti, di un’ampia famiglia sociale di reietti. Inoltre, in quanto «precario accademico», mi si riconosceva almeno una caratteristica, quella di avere a che fare – malgrado tutto – proprio con quella istituzione che, attraverso la sconsolata voce dei suoi rappresentanti, mi ricordava a ogni piè sospinto quanto fossi un soggetto ingombrante, intrusivo, superfluo.
Qui, come altrove, una società che esclude dal lavoro un numero sempre maggiore di persone atte a compierlo riesce a far apparire questa strategia di sistema come l’esito di una cattiva volontà individuale. Ogni aspirante lavoratore è chiuso nelle sue fantasmagorie di riuscita e di fallimento, di merito e fortuna, quando la sua condizione contrattuale è del tutto identica a quella di una gran quantità di individui dai talenti e dalle vicende biografiche più disparate. Durante i miei brevi anni di precariato accademico, non mi è mai passato per la testa di avere qualche diritto da rivendicare. Mi limitavo alla lotta per far riconoscere qualche merito. E ciò valeva, ovviamente, per tutti coloro che si trovavano nella mia stessa situazione, il cui status oscillava, ai miei occhi, tra quello di vittime di una malasorte comune e quello di perniciosi avversari.
La natura anfibia dell’università italiana, d’altra parte, intenzionalmente democratica quanto alla formazione, e feudale quanto al reclutamento, prevedeva sì qualche battaglia studentesca sul diritto allo studio, ma non contemplava più alcun discorso sul diritto al lavoro per il variopinto esercito dei precari che insegnavano, svolgevano esami, facevano ricerca, senza nessuna garanzia professionale per il futuro e spesso in condizioni salariali indecenti. E la maggior parte di noi cosa ha fatto? Presi nella morsa tra disincanto e codardia, abbiamo abbracciato una specifica cultura del sottosuolo. Mi rendo conto che è indecoroso parlarne, anche per il già paventato rischio dell’aneddotica, volgare e generalizzante. Inoltre vanno salvaguardati i pur residuali casi di eroismo. Quelli che sono espatriati con successo. Quelli che – pare esistano testimonianze in questo senso – hanno pronunciato la fatidica frase («Ma sei un bello stronzo!») ad alta voce.
In fase di formazione, i migliori dei nostri docenti – per ciò che riguarda le discipline umanistiche – hanno glorificato l’autonomia intellettuale e la libertà di spirito, salvo poi, in fase di reclutamento, sottoporci ai molteplici «sacrifici dell’intelletto» in nome della fedeltà feudale alla persona. Nell’università, così come nell’Europa medievale, «ognuno è l’uomo di un altro uomo». Questo sistema, avendo strutturato l’intera società occidentale per centinaia di anni, potrà ben governare un’istituzione come l’università ai giorni nostri? Esclude, però, forme di contestazione di tipo democratico. Lo studente di tanto in tanto protesta contra una riforma, sotto l’occhio complice o tollerante del docente. Il dottorando, l’assegnista, il cultore della materia, il borsista di solito non fanno cortei, occupazioni, assemblee, blocco degli esami, anche perché sono fatalmente sostituibili. Un destino capriccioso vuole che, agli occhi dei docenti garantiti, gli studenti siano materiale umano prezioso, da infoltire, affinché i dipartimenti si perpetuino con agio. Ma quegli stessi studenti diventano poi bizzarri e ingombranti personaggi, quando si ripresentano sotto le spoglie di aspiranti colleghi e ricercatori, sempre protesi a mendicare sottofrazioni di salario.
Fuori dall’Italia, la situazione non sembra così diversa. Ricordo nell’autunno del 2007 i mesi di mobilitazione studentesca a Paris III, uno dei maggiori poli universitari parigini. Le due più grandi aule dell’edificio si trovavano una di fronte all’altra. Nella prima, strapiena, gli studenti contestavano la proposta di riforma universitaria del governo di centrodestra, votavano compatti il proseguimento dello sciopero, annunciavano l’inasprimento della lotta. Nella seconda, meno popolata, gruppi di professori progressisti prendevano a cuore le rivendicazioni studentesche. Erano presenti anche alcuni precari universitari, che da anni insegnavano in quelle aule confusi ai loro colleghi garantiti, ligi però ai dettami della nota formula: “faccio tutto come te, ma sono trattato molto peggio di te”. Ricordo tra questi precari persino qualcuno che, pur timidamente e nel rispetto delle gerarchie accademiche, prese la parola non per dire: “Ma siete dei begli stronzi!”, bensì per manifestare compassione verso gli studenti minacciati nel loro diritto allo studio. Più di tutti, però, teneva banco con piglio oratorio un professore che, durante i quattro anni che lo frequentai nel medesimo dipartimento, mai si lasciò scappare una qualche osservazione sulle condizioni dei suoi colleghi precari. A forza di non usare il più doveroso e giustificato turpiloquio, noi precari universitari diventavamo invisibili anche agli occhi dei più progressisti dei professori.
Mi rendo conto che è triste indulgere nella cultura del sottosuolo, con la sua insignificante aneddotica. Però vale la pena di ricordare, in conclusione, almeno il caso di Gianfranco R., ossia «l’eterno dottorando», come lo definivano gli studenti del dipartimento che assiduamente frequentava. Gianfranco in realtà aveva già ottenuto borse di postdottorato, teneva qua e là seminari, pubblicava libri per case editrici del settore, cenava con professori ordinari, a cui dava del tu senza esagerare nel contraddittorio. Io lo invidiavo, perché mi sembrava animale meglio adatto all’ambiente accademico, più portato per l’erudizione ossessiva, la notazione scrupolosa a piè di pagina, la citazione in lingua originale, ma soprattutto aveva installato nella sua mente un poderoso database della geografia accademica italiana, con tanto di gerarchie ufficiose e informazioni esoteriche. Io avevo sperato, in ultima istanza, di farmi concupire da qualche tardona che fosse almeno professore ordinario. Gianfranco invece volava alto: il suo posto se lo meritava, e si curava maternamente dell’uomo da cui dipendeva il suo concorso. Quest’ultimo, infatti, era un ordinario della quarta età. Gianfranco si occupava della sua dieta, delle medicine al giusto orario, di fargli evitare scale e correnti gelide. Purtroppo le cose andarono male, perché in circostanze un poco confuse il vegliardo fu colpito da ictus, mentre la dottoranda che era con lui non riportò gravi conseguenze. In dipartimento Gianfranco perse di colpo il dono della visibilità: si aggirava come un’ombra smarrita, ormai completamente orfano, completamente fottuto. Ha avuto in seguito un’irrimediabile caduta della libido cognoscendi: non solo non può più leggere saggi accademici di genere anche divulgativo, ma è tormentato da un incubo ricorrente. Per un crimine turpe che ha commesso, viene condannato all’ergastolo. Quando si rende conto di essere rinchiuso in una cella doppia in compagnia di un professore universitario progressista, ergastolano come lui, si sveglia lanciando un grido di terrore.
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