25.2.11

Storie in parallelo. La comune rovina del Pci e del Psi (di Aldo Tortorella)

Da un saggio di Aldo Tortorella dal titolo Vent'anni dopo, comparso nel numero 5 del 2009 di "Critica marxista", riprendo questo brano sulla parallela dissoluzione di quelle che furono le principali forze della sinistra italiana nella cosiddetta "prima Repubblica": Psi e pci. Mi pare che contenga non solo osservazioni stimolanti sul piano storiografico, ma anche riflessioni utili per l'oggi (S.L.L.).

La comune rovina
Sono pienamente convinto che molte delle critiche di ieri e molte di quelle di oggi furono e sono basate su buoni e giustificati motivi, a partire dalle obiezioni alla definizione delle nuove identità a sinistra prima nel campo del Psi e poi in quello del Pci.
Mi sembra oggi innegabile – quali che fossero le opinioni di venti anni fa – che quel che venne fuori dal dissolvimento traumatico del Psi e dell’autoscioglimento del Pci non portò a nulla di solidamente fondato. I due casi, certo furono diversi. Ma il disfacimento del Psi non si spiega solo con cause giudiziarie, poiché quel che ha portato anche all’intervento della magistratura dipendeva dalle conseguenze di un corso politico. E quel che è successo dopo ha dimostrato l’esistenza di contrapposizioni insanabili preesistenti giunte sino alla scelta di alcuni consistenti gruppi per la destra.
Analogamente l’autoscioglimento del Pci non veniva solo da un gesto improvviso, per me sbagliato
nei contenuti e nel modo, ma da precedenti irrisolti problemi come ha dimostrato anche la fragilità di quel che è venuto subito dopo. Delle due formazioni nate dal Pci, che hanno comunque mostrato
quanto ampio fosse il suo lascito, l’una, la maggiore, era tanto poco certa di quel che dovesse essere la parola «sinistra» con cui aveva scelto di definirsi da subire le incessanti metamorfosi di forma e di contenuto che si conoscono, fino all’abbandono del nome stesso, pur nella permanenza dei medesimi dirigenti. L’altra formazione, la minore, era così sicura del significato del proprio nome «comunista» (da rifondare) da essere in tempi brevi abbandonata dai fondatori che quel nome avevano scelto di conservare e da generare, per partenogenesi, nuove formazioni minori. Naturalmente, anche nella diaspora dei comunisti italiani non mancarono singoli passaggi a destra. E ora siamo a un nuovo Partito democratico, in permanente fibrillazione, a un livello di consensi simile a quello del solo Pci e a una sinistra ridotta in minuti frantumi.
Questi esiti dolorosi delle grandi formazioni storiche della sinistra italiana non devono cancellarne i meriti. Esse ebbero gran parte nella rinascita della democrazia italiana, rendendo protagoniste della vicenda politica e del reggimento dello Stato classi sociali prima escluse. Il patto costituzionale, cui concorse in modo decisivo l’ala più avanzata della Democrazia cristiana, non fu principalmente un compromesso fra diversi, quanto, piuttosto, una sintesi dovuta alla comune riflessione sulla tragedia rappresentata dal fascismo e alla comune lotta contro di esso: solo così si spiega il carattere innovatore di una concezione dello Stato per la prima volta, non solo in Italia, ispirata alla centralità e priorità del lavoro. È una volgarità e una sciocchezza aver ridotto – anche per responsabilità della sinistra – quella che viene chiamata la prima Repubblica al suo epilogo. Essa era minata dalla convenzione per escludere il maggiore partito dell’opposizione. E fallì il tentativo di arrivare a una democrazia compiuta con i medesimi attori che avevano dato vita alla Costituzione e alla Repubblica, ma questo scacco – come oggi si vede – non fu un bene per l’Italia.
Su come sia maturato questo fallimento – e su quali fattori interni e internazionali vi concorsero – è aperta da tempo una ampia ricerca storica. Ma è certo che tra i motivi determinanti vi fu la crisi venuta da tempo maturando dei partiti – e, in essi, di quelli della sinistra.
La svolta che fu fatale al Psi (il primato della governabilità, la priorità del potere e, dunque, come disse Foa, il danaro per il potere e viceversa) e la svolta che portò allo scioglimento del Pci (il ripudio della propria storia, il «nuovismo» finalizzato al governo) poterono conquistare la maggioranza dei gruppi dirigenti dei due partiti – e dei partiti stessi – perché il bisogno di cambiamento era reale e profondo.
Per questo motivo nel Psi alla svolta craxiana parteciparono in un primo tempo anche molti che poi ne diverranno acuti critici. E, nel Pci, dove nacque subito una opposizione alla svolta detta della Bolognina, anche la maggiore delle mozioni (la seconda) di opposizione, tra cui era anche chi scrive questi appunti, sosteneva la necessità di un vero e proprio rifacimento del Partito. E la mozione di un gruppo di compagne femministe proponeva un punto di vista del tutto autonomo e nuovo.
D’altronde, Berlinguer era morto nel pieno di una azione volta a cambiamenti profondi del modo di essere del Partito, seppure in direzione opposta a quello che avvenne poi.
Se, dunque, gli autori di quelle svolte cercarono di interpretare un bisogno di rinnovamento che era reale, i fatti confermano che i contenuti di quelle svolte portavano solo verso il burrone e che le improvvisate rifondazioni erano senza fondamento. Ciò non significa che coloro i quali si opposero a quelle improvvisazioni rovinose avessero una soluzione veramente valida. Nel Psi le voci di dissenso rimasero isolate per il pieno coinvolgimento, in un primo tempo, della destra e della sinistra interna nelle idee portanti del corso craxiano. Nel Pci le opposizioni all’autoscioglimento, che pure vedevano giustamente la assurdità di recidere le proprie radici, non riuscirono a indicare una via innovatrice convincente per la maggioranza ma neppure a comporre una minoranza sufficientemente coesa, come subito si vide. Le maggioranze spesso hanno torto. Ma non sempre le minoranze che a loro si oppongono hanno in tutto ragione.

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