Leggo solo ora l’articolo di Duccio Valori, già dirigente dell’Iri, sulla questione Fiat (“il manifesto”, 17 febbraio 2011) e lo riproduco qui sotto. Puntigliosamente rievoca le (tante) promesse che nel tempo il manegement non ha mantenuto e i (tanti) errori che hanno caratterizzato le vicende della celebre industria automobilistica. Ci sono nella breve ricostruzione clamorose omissioni (per esempio neanche un accenno al capitolo Termini Imerese), ma il succo del ragionamento è evidente: non ci si può fidare di Marchionne né sul mantenimento a Torino della “testa” della Fiat né sugli investimenti che dichiara di voler fare.
La mia previsione di incompetente che legge i giornali l’ho già accennata qui, in altri “post”. La esplicito. Nelle more dell’investimento (magari con l’alibi dei prezzi del petrolio e del proseguimento della crisi dell’auto) la Fiat chiederà al governo di contribuire in qualche modo e in qualche forma all’investimento come compenso per il ruolo di “sfondamento” del contratto nazionale. Quando gli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori saranno ritenuti “governabili”, previa “scrematura” del personale, potranno essere venduti a una qualche azienda europea o asiatica interessata. Un uccellino mi dice che la Fiat non fabbricherà a Mirafiori quei Suv diretti al mercato statunitense i cui motori dovrebbero arrivare da Detroit e non fabbricherà a Pomigliano le utilitarie che danno pochi utili e che al momento pochi comprano. A meno che non accada quello che tra le righe Valori suggerisce: un governo interventista capace di sanzionare chi non rispetta i patti. Ma quel tipo di governo dell’economia non solo è incompatibile con il “berlusconismo”, ma non lo vuole neppure Veltroni. (S.L.L.)
Qualche (buona) ragione per non fidarsi della Fiat
La settimana scorsa l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha ribadito l'intenzione della società di realizzare il progetto Fabbrica Italia, con l'investimento di circa 20 miliardi di euro e il mantenimento della «testa» in Italia, sempre che sia garantita la governabilità delle fabbriche. Proposito lodevole, affermato nell'assordante silenzio del governo e del suo degno rappresentante, l'ex-craxiano ministro Sacconi; e tuttavia proposito tutto da verificare, proprio come dev'essere verificata la «governabilità» richiesta da Marchionne. Chi giudicherà, se non la stessa Fiat, del conseguimento della governabilità? Dunque gli investimenti si faranno solo se la Fiat riterrà conveniente farli: e in questo, e solo in questo, consiste il suo impegno. In altre parole, bisogna fidarsi della Fiat. Tuttavia la storia degli ultimi cinquant'anni è anche la storia degli errori e delle bugie della Fiat.
Alla fine degli anni '50 la Pirelli, l'Italcementi e la stessa Fiat predisposero un progetto di massima per un'autostrada che unisse Milano a Napoli; tuttavia i dubbi della stessa Fiat sullo sviluppo della motorizzazione in Italia fecero accantonare il progetto. Questo, dietro forti pressioni politiche nazionali e locali, venne ripreso dall'Iri, che realizzò, a costo zero per lo Stato, l'Autostrada del Sole, che si sarebbe rivelata fonte insostituibile di profitti e di liquidità prima per l'Istituto, poi per l'Italstat. Un secondo errore della Fiat fu la cessione della controllata spagnola Seat ai tedeschi, nell'ipotesi - poi smentita dai fatti - di un mancato sviluppo della motorizzazione iberica; sviluppo che invece si verificò con grande dinamismo proprio all'indomani della cessione della Seat.
Con l'avvicinarsi della liquidazione dell'Egam - che operava nei settori minero-metallurgico, meccanotessile e della siderurgia speciale - la Fiat, nella persona dell'ingegnere Ferdinando Palazzo, allora responsabile della Teksid, fece circolare la voce di un proprio interessamento all'acquisizione del settore acciai speciali (Sias) dell'Egam; tuttavia, quando l'Ente fu messo in liquidazione, la Teksid non presentò alcuna offerta (com'era facilmente prevedibile) e la Sias venne assegnata alla Finsider del Gruppo Iri. A questo punto la Fiat si fece avanti per una razionalizzazione congiunta del settore acciai speciali, e l'avvocato Sette, allora presidente dell'Iri, incaricò chi scrive di negoziare con la Teksid non un matrimonio, ma un adeguato periodo preliminare di «ottima convivenza», nel quale ciascuno avrebbe dovuto razionalizzare le proprie attività omogeneizzandole con quelle dell'altro.
Quest'ipotesi tuttavia non fu gradita alla Fiat, che voleva in realtà disfarsi del settore. Le trattative furono interrotte, e poco tempo dopo, con l'intermediazione dell'allora Ministro delle Partecipazioni statali, De Michelis, la Finsider dovette acquistare l'intero comparto dalla Fiat. Verificate le carenza e le manchevolezze tecniche dell'intera struttura dei forni elettrici della Teksid, la Finsider li chiuse, sacrificando la cifra non indifferente pagata alla Fiat (400 miliardi di lire dei primi anni '80), lasciando in funzione solo quell'impianto di laminazione che - trasferito alla Terni acciai speciali (Tas) e da questa ceduta alla Thyssen Krupp - avrebbe completato il suo ciclo di vita con la tragedia che tutti ricordiamo.
In seguito, con la gestione Prodi, l'Iri avviò trattative con Cesare Romiti - allora amministratore delegato della Fiat - per la cessione dell'Alfa Romeo. Le trattative furono bocciate da Romiti («Di boxer - il motore superquadro dell'Alfa - conosco soltanto il cane», affermò). Solo in seguito all'interesse manifestato dalla Ford, la Fiat si vide costretta a tornare sui suoi passi e ad acquistare (a buon mercato) l'Alfa Romeo, che è oggi il marchio di maggior successo della casa torinese.
Ancora più recente è l'episodio della General Motors, con la quale Fiat aveva siglato un accordo che avrebbe dato alla Gm una consistente partecipazione azionaria nella casa italiana. Quando Generale Motors - dopo un'accurata analisi - decise di non proseguire nel progetto, la Fiat ottenne come penale il pagamento di 1 miliardo di dollari, ma non per questo abbandonò definitivamente il progetto di un trasferimento oltreoceano.
Se e quando si verificherà l'acquisizione di Chrysler, la Fiat potrà infatti avviare la fusione tra le attività automobilistiche italiane (oltre che polacche, brasiliane, ecc.) e quelle americane. Ora, è evidente che in un patè di allodola e cavallo, fatto con un'allodola e un cavallo, il gusto dominante sarà quello del cavallo. La società nata dalla fusione sarà certamente quotata a Wall Street, e la quota di minoranza di proprietà Fiat potrà essere venduta senza grandi problemi.
Si vuole dire con questo che la Fiat non può sbagliare? Solo il Papa è infallibile, e anche lui solo in determinate circostanze. La Fiat è gestita da esseri umani, soggetti, come abbiamo visto, a ingannarsi, a ingannare e ad essere ingannati. Nessuno possiede tutta la verità: né la Fiat, né i sindacati, né tanto meno il governo. Le scelte migliori possono provenire solo dal negoziato e dal confronto: non dal diktat e della prevaricazione di una parte sull'altra o - come nel caso del governo - dall'appiattimento sulle posizioni di una delle parti in causa.
Appare oggettivamente difficile che la Fiat abbandoni spontaneamente la propria posizione di forza e che anteponga gli interessi generali a quelli, molto particolari, dei suoi azionisti. Tuttavia la tutela dell'interesse generale, sia in termini di ricerca e sviluppo che di salvaguardia dell'ambiente e dell'occupazione, spetta non al mercato, con tutti i suoi squilibri, le sue storture e le sue forzature, ma a chi, come il governo, si trova istituzionalmente al di sopra delle parti e dei loro interessi. L'intenzione di realizzare i 20 miliardi di investimenti promessi e di non abbandonare l'Italia non deve quindi restare un buon proposito della Fiat, soggetto solo alla sua benevola discrezione, ma deve trovare vincoli espliciti e precisi nella volontà pubblica, e trasformarsi in un impegno vero e proprio, garantito da adeguate sanzioni nel caso, tutt'altro che improbabile, di inadempienza.
Duccio Valori
ex Direttore centrale Iri
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