18.5.11

Anche i filosofi muoiono (di Emanuele Severino)

Emanuele Severino
Questo breve testo, di Emanuele Severino, comparve su “L’Europeo” il 21 maggio del 1983 come recensione al volume di Thomas De Quincey sugli ultimi giorni di Kant, mi pare assai ben scritto e di ottimo spessore narrativo. (S.L.L.)
Immanuel Kant
Thomas De Quincey

L’andamento del libro potrebbe richiamare quello della tragedia antica. Dapprima l’eroe è presentato in tutto lo splendore. Anche fisico. “E’ possibile concepire – esclama Kant – un essere umano che goda di una salute più perfetta della mia?”. Splendore anche del tratto: “Kant usava il suo denaro in un modo che non si potrebbe definire altrimenti che principesco”. Poi la sorte avversa vien fatta bruscamente comparire: “Le infermità della vecchiaia cominciarono ora a insinuarsi in Kant e a tradirsi in molteplici modi”.
Kant, che non era mai stato ammalato e che ogni giorno aveva ospitato i suoi amici per un lungo pranzo ricco di buoni cibi e di buona conversazione, perde la memoria al punto da non saper più scrivere il suo nome, è perseguitato da incubi e da sogni terrificanti, non sa più esprimersi.
Solo alcuni sprezzi di luce ambigua, ma, appunto per questo, potentemente evocativa. Atroci schiere di spettri stanno attorno al suo letto di notte. Atroci schiere di spettri stanno attorno al suo letto di notte. Ma egli annota nel suo diario: “Non arrendersi ora al panico del buio”. Si tratta solo del buio che viene combattuto dal lume che allora si decide di tenere acceso nella sua stanza? Si accascia contro il bracciolo della sua poltrona, e all’amico che risollevandolo gli dice: “Ora, mio caro signore, è di nuovo a posto”, risponde: “Sì, pronto per il nemico e in schieramento di battaglia”. (Al suo funerale, grandioso, partecipano anche “numerosi ufficiali superiori dell’esercito, i quali sempre avevano sempre dimostrato grande predilezione per Kant”. Il suo domestico Lampe lo aveva servito per quarant’anni dopo aver prestato servizio nell’esercito prussiano. L’ascetismo marziale del padrone gli ricordava le sue prime esperienze militari). La notte prima della morte, dopo che gli è stato dato qualche cucchiaio di liquido dice: “E’ abbastanza”. Sono le sue ultime parole.
Thomas De Quincey è l’autore di questa tragedia, ricostruita sulle testimonianze disponibili: Gli ultimi giorni di Immanuel Kant. Uno dei maggiori prosatori inglesi dell’800. Anche se oppiomane e annoverato tra gli evangelisti della décadence, la sua rievocazione dell’eroe non ha l’intento di mostrare il disfacimento di ciò che è grande, ma piuttosto di provare, servendosi della memoria di quanti furono vicini a Kant nell’ultimo periodo, che anche nel disfacimento la grandezza rimane.
Se, scrivendo della morte di Kant, De Quincey avesse potuto prevedere la propria morte, sarebbe stato allora colto dallo smarrimento. Nelle sue ultime notti Kant – “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” – è perseguitato dagli incubi più spaventosi. Nelle sue ultime notti, invece, De Quincey riconosce le “orme degli angeli” ed è invitato al grande pranzo da Gesù Cristo con i bambini vestiti di bianco. La folla che visita Kant sul suo letto di morte è concorde sul fatto che non si era mia vista una salma scarnita e consunta. Il corpo di De Quincey, che muore a 74 anni, sei meno di Kant, sembra invece, dicono i biografi, quello di un ragazzo quattordicenne.

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