23.5.11

Faccia da de profundis (di Gian Luigi Beccaria)

Chissà perché guardando in Tv il "premièr" in questi giorni m’è tornato alla mente un vecchio ritaglio di Parole in corso, la rubrica di Gian Luigi Beccaria sul Tuttolibri de “La Stampa”. Forse perché il cognome Beccaria è milanesissimo e fa rima con Pisapia.  
L’ho recuperato. Risale al 30 agosto del 2008. Parla dei modi di dire dialettali d’origine chiesastica ed è pieno di simpatiche curiosità. Lo posto qui per la gioia dei visitatori. (S.L.L.)
Ho raccolto dei modi di dire popolari che fanno riferimento alle cose di chiesa, al mondo della liturgia e della religione. I dialetti ne sono davvero ricolmi. Mi sembrano molto interessanti, e molto arguti. Nel Veneto, ad esempio, «l'è un aquasantín» si diceva di una ragazza che si lascia toccare da chi capita, come l'acquasantiera in chiesa. Sfogliando un vocabolario del dialetto piacentino (Tammi) vedo che da quelle parti «avé al cül in dl'acquasantéin», nell'acquasantiera, significa essere in una botte di ferro.
Vengo poi ai santi inventati: in Piemonte «san Duná 'l è mort aj resta mach pi san Piu» si riferisce agli egoisti, che preferiscono «prendere» anziché «donare». Pure a Piacenza era d'uso il detto «san Dunnein [il santo «donatore»] 'l è mort e so pär e so fiö i stan mäl». Un santo vero, san Rocco, è tirato in ballo molto spesso in tante locuzioni: c'è un detto molto elaborato diffuso nel Molise che dice: «Ze sonn'eccuecchiate a lime, a raspe e Sande Rocche c'a pesc-te », si sono riuniti la lima, la raspa e san Rocco con la peste, cioè persone della stessa risma, persone scontrose, hanno cominciato a frequentarsi. La solita saggezza nel detto, ancora molisano, «A preggessejone dovve esce elle restrasce», la processione dove esce là rientra, nel senso che non si può cambiare l'ordine delle cose. Aldo Milanesi, cultore del dialetto di Casalpusterlengo mi scrive che al suo paese chiamano «facia da chirieleison» chi è male in arnese, quel che altrove indicano come con «faccia da de profundis». Oppure di un persona sporca, tutta unta, lì dicono «vunc 'me un Pilát», e di un vestito macchiato, inzaccherato «Pilatént» (Pilato doveva aver le mani sporche, visto che se l'è lavate!).
Nel Lazio, anziché «lo dico a suocera perché nuora intenda» si sentiva «'o dico a Pietru perché Pauli 'ntenna», e nel Molise «Ogne prédeche esce a lemosene», anziché «tutti i salmi finiscono in gloria». Il «Limbo», invenzione del Concilio di Trento, è stato cancellato da un po'. Ma nei detti popolari è molto gettonato: «Va al limbo!» si diceva un po' dappertutto per mandare al diavolo qualcuno; «essere ancora nel limbo» voleva dire essere all'oscuro, al buio delle cose, «scuro come il limbo», e nei dialetti limbo, si riferiva a luoghi bui, pieni di fumo. 

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