23.5.11

Gli italiani e i farmaci generici (di Silvia Bencivelli)

Su “alias” del 14 maggio 2011 c’è un articolo sui farmaci generici di Silvia Bencivelli. Il suo approccio non mi pare convincente in tutti i passaggi e tuttavia le informazioni che fornisce mi paiono da rammentare. E’ con questo scopo che colloco qui un ampio stralcio del suo pezzo. (S.L.L.)
Italiani, popolo di fighetti.
Che se non hanno il golfino griffato si sentono un po’ giù. E se si sentono un po’ giù vanno in farmacia a prendersi una pilloletta. Ma vogliono griffata anche quella.
Così spendiamo un sacco di soldi in farmaci col brand mentre i cosiddetti generici restano a languire sul bancone del farmacista. Del resto, hanno un packaging grigiastro e un nome ancor più grigio, perciò solo pochi individui bislacchi li preferiscono a quelli di marca, giusto qualche intellettuale di sinistra e un paio di fanatici del no-logo. Il risultato è che, per una complicata legge di mercato, pur essendo meno richiesti stanno cominciando a costare di più. E se non costano di più a noi personalmente, pesano di più sui conti dello Stato. Cioè, di nuovo sui nostri.
Fighetti e autolesionisti, gli italiani.
Proviamo a capirci qualcosa. I farmaci generici sono farmaci che hanno lo stesso principio attivo dei farmaci griffati (cioè la stessa molecola terapeutica, che poi è il motivo per cui li prendiamo), e vengono immessi in commercio quando il brevetto dell’azienda farmaceutica sul principio attivo è scaduto. Quindi possono essere prodotti anche da altre aziende a un prezzo più basso, oppure dalla stessa ditta ma con meno vezzi. Invece di chiamarsi Mocciolin o Dormiben o Viaidolor, si chiamano con il nome scientifico (ibuprofene, lansoprazolo, amoxicillina…) che è sempre meno accattivante. E al contrario dei farmaci prêt à ingoier, sono confezionati in scatole con su scritta la lista degli ingredienti, il prezzo, la scadenza e nient’altro.
L’altro, però, il fratello griffato, rimane sul commercio anche a brevetto scaduto, per cui per il cliente si pone l’alternativa tra quello bello col solito nome rassicurante e uno che dicono uguale,ma è vestito da brutto anatroccolo e ha un nome difficile da leggere. Trattandosi di popolo di fighetti, l’italiano sceglie il primo e se è necessario paga la differenza: le Regioni infatti ci mettono un rimborso fino a coprire del tutto il costo del generico, quello che manca per arrivare al prezzo del griffato ce lo mette il consumatore. Che in genere sgancia i soldi e non ci pensa più.
Ma se proprio ci pensa può farsi venire qualche strano dubbio sugli altri componenti del farmaco e mettere in giro strane voci. Esattamente come per i vestiti di marca, per cui c’è sempre uno che dice che ‘ah, però, si sente che è lana di buona qualità’, anche per i farmaci senza brand c’è chi avanza sospetti sulla chimica dell’intera pasticca.
Peccato che siano tutte baggianate, secondo Silvio Garattini, fondatore e direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri: «Non ci sono differenze significative tra farmaci con e senza brand che possano modificare le risposte terapeutiche. Il principio attivo è identico e gli eccipienti sono spesso gli stessi. La dissoluzione delle compresse deve essere analoga e i livelli nel sangue devono essere sovrapponibili. Se tutto ciò viene controllato è difficile che siano prodotti diversi. D'altra parte vengono utilizzati in tutto il mondo. Solo in Italia si fanno storie».
Infatti da noi la quota di farmaci generici è intorno al 12 per cento del totale, nel resto d’Europa è in media del 50 per cento. Va anche detto che qui i farmaci di cui esiste il generico sono una percentuale abbastanza bassa del totale, ma forse la ragione è quella descritta nella riga precedente.
Peccato, eh. Perché i farmaci senza griffe costano meno. Introdotti dieci anni fa, hanno permesso allo stato di risparmiare un sacco di soldi: si tratta di circa 625 milioni di euro solo nel 2010, mica bruscolini. Se venissero usati di più, diciamo se venissero usati nel modo migliore possibile, ci sarebbero altri 800 milioni di euro di risparmio. È per questo che i dottori sarebbero chiamati a incoraggiarne il consumo.
Solo che a volte sono loro stessi, i medici, i primi ad avere pregiudizi e timori infondati e a spingere per il consumo dei farmaci di marca…  Ed ecco che il volume di vendite del generico si abbassa, o non si alza, e i costi per l’azienda che lo produce non possono essere compressi oltre un certo limite…
Il brand no-brand, il logo no-logo, in italiano, non avrebbe dovuto essere la parola generico. Per noi una cosa generica è una cosa approssimativa, vaga, indeterminata: vatti a fidare di qualcosa di generico, soprattutto se stiamo parlando di salute. Che poi il nome, come il colore e la confezione, contribuiscono anche a quell’effetto placebo fondamentale in ogni atto terapeutico. «Purtroppo si è utilizzata la traduzione italiana del termine inglese – spiega Garattini – che in italiano, effettivamente, non suona bene. Si è poi tentato di introdurre il termine farmaci equivalenti, ma forse è un po' tardi». E comunque, bello slancio di creatività anche quello. Con quei fighetti degli italiani chissà se funzionerà.

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