26.5.11

Scuola. Precarietà e autoritarismo (di Raffaele Rossi - RdS, XII, 1969)

Raffaele Rossi negli anni 80
Per ricordare Lello Rossi, perugino, maestro elementare, autorevole dirigente e parlamentare del Pci, storico e memorialista, ho recuperato uno stralcio da un suo articolo su “Riforma della scuola” del dicembre 1969, il mensile del Pci dedicato ai problemi della educazione e della formazione al tempo diretto da Lucio Lombardo Radice. Vi è citato anche Aldo Capitini, che nel 1968 era stato promotore di un convegno perugino che aveva avanzato proposte assai penetranti di riorganizzazione democratica del sistema scolastico. Rossi ne riprende due tra le più dirompenti: il carattere elettivo della dirigenza scolastica e il ridimensionamento della funzione del provveditore. Dalla pubblicazione dell’articolo son passati 40 anni e passa, e da allora non si contano riforme, riformine e controriforme, ma la denuncia forte della precarietà come elemento strutturale dell’autoritarismo scolastico, causa di scarsa qualità dell’insegnamento, ci riconduce all’oggi, alle Moratti e alle Gelmini, alla scuola come luogo di riproduzione della disuguaglianza. (S.L.L.)
Raffaele Rossi maestro (in alto a sinistra), Ramazzano 1947
Già nel 1867, sul primo fascicolo de “L’Educatore italiano”, si leggeva: “Lo stato in cui si trova oggi l’istruzione da noi, non può durare a lungo imperocché gli insegnanti, a ragione, si lamentano dell’incertezza in cui versa da tempo la loro condizione; e l’incertezza scoraggia anche i migliori fra loro”.
Doveva durare a lungo, tanto che dura ancor oggi: basti pensare alla gran massa di insegnanti fuori ruolo, ma a tutto il corpo insegnante posto in tanti modi in una condizione d’insicurezza sulla quale agisce il direttore didattico e il preside, il provveditore, gli ispettori ministeriali, il Ministro, insomma tutta la struttura gerarchica del potere scolastico, quella struttura che, subito dopo l’applicazione della legge Casati, l’on. Berti aveva definito “una specie di frateria amministrativa”, quella struttura in base alla quale, per dirla con Lucio Lombardo Radice, “i presidi ‘rispondono’ del loro operato ai Provveditori e agli Uffici ministeriali, i Provveditori ‘rispondono’ al Ministro, ognuno ‘risponde’ al gradino superiore: nessuno risponde ai cittadini della scuola, a insegnanti e alunni”.
Tutta la storia della scuola italiana è contrassegnata dalla costante critica all’ordinamento dell’istruzione pubblica, ai suoi contenuti culturali, alla condizione degl’insegnanti, all’improvvisazione con la quale s’erano “copiati malamente e in fretta leggi e regolamenti francesi allora di moda e rabberciati di tanto in tanto, dopo il ’70, sul modello della Germania sempre per seguire servilmente la moda del di fuori”. Ma, a ben guardare, la ragione di tutto ciò risiede in una precisa  e consapevole scelta di classe, è cioè da imputare al cortissimo respiro riformatore della borghesia italiana che, come scrive il Santoni Rugiu “abbaiava contro i preti e poi se ne serviva per metterli in cattedra, giudicava superata la guida religiosa per lo studio, ma conservava nelle scuole il Direttore spirituale… era più vicina al vituperato modello gesuitico che alle forme di una istruzione dimensionata ai bisogni sociali”…
L’esasperato spirito accentratore, che fu il cattivo genio della nostra classe dirigente risorgimentale, ha prodotto una organizzazione scolastica dominata dall’alto, incapace di divenire una forza autonoma e pienamente vitale della società.
La scuola italiana, così com’è oggi, è dunque figlia legittima della società capitalistica e ne riproduce quelle più generali caratteristiche di esasperato accentramento burocratico che dominano e condizionano la vita dei cittadini in ogni settore, nella fabbrica e fuori di essa, nelle assemblee elettive locali, ecc. Tutto ciò sottolinea davanti al movimento operaio e alle forze di progresso l’importanza e l’urgenza della lotta per la riforma della scuola come un momento del processo generale per il rinnovamento della società, ma, d’altra parte, indica la necessità di una azione specifica contro la struttura gerarchica della scuola. Si pone in tal modo il problema di superare la figura del dirigente scolastico, espressione di un potere dell’alto, di delineare la figura del dirigente eletto periodicamente da insegnanti e studenti ed organismi elettivi in cui sia presente il “mondo della scuola” e quello più vasto della società, affinché la scuola pubblica non sia “un pezzo dell’apparato statale, ma un organo della società civile”.
La scelta non è dunque tra autoritarismo e anarchia, ma tra un autoritarismo che è sinonimo di dispotismo e autorità legittima di dirigere, che nasce e si rafforza con la democrazia, cioè con il carattere elettivo degli incarichi. In tal modo direttori e capi d’istituto, liberati da ogni caratterizzazione burocratica e gerarchica, debbono trovare nella libera scelta dei “cittadini della scuola” il riconoscimento della loro qualità di educatori.
La questione del Provveditore agli studi si pone in termini diversi. La legge Casati del 1859 aveva riesumato non a caso la figura del Provveditore come diretto rappresentante ed esecutore della volontà del ministro, attingendo alla riforma di Carlo Alberto del 1848 quando, con la legge Boncompagni, s’era istituito il Ministero della Pubblica Istruzione in sostituzione del Magistero della Riforma controllato dai gesuiti. Di questo organismo s’era conservata la struttura fortemente accentrata e il ministro Casati allora aveva detto: “I provveditori sono chiamati ad avere una parte importante nell’amministrazione del pubblico insegnamento e il sottoscritto confida che fin d’ora se ne sapranno mostrar degni con la loro diligente opera”.
“Il prefetto della scuola” è dunque un’istituzione quanto mai arcaica, incredibile retaggio dell’autoritarismo gesuitico e del moderatismo piemontese: la concreta proposta del suo superamento consiste nel capovolgere l’attuale rapporto tra Provveditore e Consiglio Scolastico provinciale.
Nel giugno del 1968, in un convegno promosso da Aldo Capitini, fu affrontato questo problema. Nella relazione introduttiva si affermava: “Tutti sanno che c’è il Provveditore, pochi sanno che c’è il Consiglio Scolastico provinciale, abolito dal fascismo e ristabilito dopo la Liberazione in una vita molto ridotta, di poco rilievo. Si tratta ora di capovolgere, in nome dell’autonomia e della dignità del personale insegnante, il rapporto, e mentre ora il Consiglio scolastico provinciale è sostanzialmente alle dipendenze  del Provveditore, questi deve diventare l’esecutore del Consiglio scolastico provinciale”. E ancora: “Questa sfasatura tra la pedagogia contemporanea, ricca di tante ricerche avanzate nel campo dei metodi, della didattica, e la presenza burocratica, c’impone il dovere di ridurre quest’ultima alle dipendenze della prima…”.

Nessun commento:

Posta un commento