29.6.11

L'abiura (da "micropolis" giugno 2011)

L’abiura
Più di un testo della letteratura cristiana antica fa menzione dei lapsi e uno dei Padri della Chiesa, san Cipriano, vescovo di Cartagine e martire, dedica al tema un intero libretto. Lapsi (letteralmente “coloro che sono scivolati”) erano per le chiese cristiane dei primi secoli quei cristiani che per scampare alla persecuzione avevano sacrificato all’imperatore divinizzato o avevano comprato da un funzionario corrotto l’attestazione dell’avvenuto sacrificio, abiurando così la fede in Cristo. Passata la tempesta, i lapsi chiedevano di essere riammessi nella comunità. Cipriano propendeva per una riammissione condizionata, ma non mancavano i rigoristi, fautori del “mai e poi mai”. La cosa si intende facilmente: una fede fondata sull’immortalità dell’anima può esigere dagli adepti una testimonianza che sprezza la morte del corpo (“martirio” significa appunto “testimonianza”). Anche il comunismo novecentesco fu fede per cui vivere e morire (e lo stalinismo ne accentuò i tratti di religione popolare), ma non aveva l’orizzonte della trascendenza. Pertanto, in tempo di persecuzione, il militante comunista non cercava il martirio esemplare, ma la vita e la libertà, anche al costo di un’ipocrita abiura, autorizzata dal partito-chiesa a meno che non si trattasse di dirigenti di primo piano.
E’ dunque fuori luogo il clamore con cui l’estrema destra ternana (il piccolo gruppo di ammiratori del nazi-fascismo e di Evola raccolti intorno alla “Voce della fogna” e al Centro Studi Nadir) ha diffuso la copia dell’atto di sottomissione di un militante comunista. E’ firmato nel 1939 dal barbiere Bruno Zenoni, che nella Resistenza e nel dopoguerra avrebbe avuto un importante ruolo, e diretto al Duce, al fine di ottenere una rapida scarcerazione. In verità i “fognanti” scoprono l’acqua calda: il documento non era ignoto agli studiosi e di simili se ne trovano a decine; ma per loro va bene tutto, purché sia utile alla causa revisionista e negazionista.
Un po’ più sorprendente è lo spazio che alla non-notizia dedica il giornalino di Colaiacovo. L’articolista, tal Arnaldo Casali, cita come se fossero storici insigni i propagandisti dell’estrema destra Cappellari e Petrelli e si finge scandalizzato per la messa in scena di Zenoni. Con malevolenza l’articolo è impaginato insieme alla notizia un po’ sbrigativa delle celebrazioni della Liberazione di Terni, avvenuta tra il 13 e il 14 giugno del 44.
Sul “giornalino” del 16 lo stesso Casali, con impudenza impareggiabile, esalta il “vero eroe dell’antifascismo”, il vescovo Bonomini, che “mentre i partigiani della celebratissima brigata Gramsci se ne stavano nascosti in montagna e organizzavano efferati delitti anche ai danni di innocenti, seminando il terrore, … condivideva la sorte di chi era rimasto in città”. Casali dà per indiscutibili le illazioni e invenzioni di Marcellini sugli “efferati delitti” (da cui i partigiani vennero tutti assolti), seguendo la massima  goebbelsiana per cui una menzogna ossessivamente ripetuta diventa verità; comico è poi il confronto tra i partigiani, che in montagna non erano andati certo a villeggiare ed erano oggetto di rastrellamenti e rappresaglie, e l’eroico prelato che stava in vescovato “a mediare con i tedeschi”.
Dicono che il Casali abbia agganci in Curia, che l’elogio di Bonomini sia estensibile ai successori e che i suoi spropositi filofascisti siano in qualche modo legati ai ricorrenti tentativi del vescovo attuale di delegittimare la sinistra che governa la città per meglio mettere le mani in pasta. Forse non è fuori luogo il richiamo di Cipriano, proprio dal De lapsis, che denuncia quei vescovi che “spregiando la missione divina, diventano procuratori e amministratori di patrimoni e beni mondani”.  

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