27.7.11

La prima strada del piccolo Serjoscia (da Lev Trotzkij - "La mia vita")

Una pagina dell’autobiografia di Trotzkij. 
Nei primi mesi del 1917 il rivoluzionario è a New York, mentre gli Stati Uniti si preparano alla guerra. Con Bucharin è nella redazione del giornale socialista in lingua russa “Novij Mir”. A New York c’è anche Alessandra Kollontay, che è passata dal menscevismo al bolscevismo estremo e con cui Trotzkij non va molto d’accordo (“al tempo di New York niente era abbastanza rivoluzionario per lei”). 
Giunge improvvisa la notizia della rivoluzione a Pietroburgo, la cosiddetta Rivoluzione di Febbraio: tra i fuoriusciti russi la notizia che sul Palazzo d’Inverno sventola la bandiera rossa suscita uno straordinario entusiasmo. E’ a questo punto che s’innesta il brano che qui riporto, un gioiellino dell’arte del racconto, che intreccia osservazione, ironia e suspence. (S.L.L.)

Quando telefonai a mia moglie dalla redazione che a Pietroburgo c’era la rivoluzione, il nostro più piccolo era ammalato di difterite. Egli aveva nove anni. Ma sapeva benissimo che rivoluzione voleva dire amnistia, ritorno in Russia e mille altre belle cose. Saltò su e si mise a ballare sul letto in onore della rivoluzione. Così si rivelò la sua guarigione. 
Ci affrettammo a partire con il primo piroscafo. Io corsi al Consolato per le carte e i visti. Il giorno prima della partenza il medico aveva permesso al ragazzo di uscire. Mia moglie lo lasciò scendere: poteva rimanere fuori mezz’ora, mentre lei impaccava le robe. Aveva dovuto farlo tante volte! Ma il ragazzo non ritornava. Io ero in redazione. Passarono tre ore. Poi squillò il telefono. Prima era una voce maschile sconosciuta, poi la voce di Serjoscia: “Sono qui”. “Qui” significava un Commissariato di polizia all’altro capo della città. Il ragazzo aveva utilizzato la sua passeggiata per risolvere un problema che lo tormentava da molto tempo: esiste realmente la prima strada? (Noi abitavamo, se non erro, nella 164/ma.) Ma si pi perdette, cominciò a domandare e fu portato al Commissariato. Per fortuna egli sapeva il numero del nostro telefono. Un’ora dopo, quando mia moglie arrivò al Commissariato insieme col figlio maggiore, furono accolti con molta gentilezza. Serjoscia, tutto rosso in viso, giocava a dama con un impiegato di polizia. Per nascondere l’imbarazzo in cui si trovava per la troppa attenzione dell’autorità, egli masticava con i nuovi amici la nera gomma americana. In compenso non ha dimenticato fino ad oggi il nostro numero del telefono di New York.

Da Leone Trozkij La mia vita, Mondadori, 1961 (prima edizione 1930).

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