19.7.11

L'arte di provocare con i simboli religiosi (di Mario Baudino)


Qualche mese fa l'opera del fotografo Andrès Serrano Immersion Piss Christ, la foto di un crocifisso immerso nel sangue e nell'urina esposta ad Avignone nella collezione Lambert, è stata attaccata da un commando di quattro giovinotti fra i 18 e i 25 anni, che l'ha presa a martellate. Su “La Stampa” del 19 aprile 2011 Mario Baudino ha commentato il fatto, svolgendo ragionevoli considerazioni che qui riprendo. (S.L.L.)

Una rana crocifissa, in una zampa un boccale di birra e nell'altra un uovo. Papa Wojtyla abbattuto da un meteorite. Una Madonna rinascimentale con un piccolo Hitler in braccio. Un crocifisso col preservativo, rimosso due anni fa dal Pan di Napoli dopo le reazioni indignate del sindaco Rosa Russo Jervolino che lo aveva trovato «disgustoso». La religione, in particolare quella cristiana, con i suoi dogmi i suoi rituali, le sue narrazioni e i suoi simboli, non è più da tempo, come fu per secoli, un tabu' inviolabile. E non solo nell'arte contemporanea, dalla quale abbiamo preso questi esempi degli ultimi anni, cui se ne potrebbero aggiungere molti altri. La pubblicità e lo spettacolo, che al fondo condividono le stesse tecniche comunicative e forse lo stesso linguaggio, anche se diretto a un pubblico ben piu' vasto, non sono da meno. C'e' il caso ancora caldo di Lady Gaga, popstar che nella costruzione della propria immagine ha fatto abbondante uso di simboli religiosi - per esempio vestendosi da suora -, che adesso ha messo in rete una canzone provocatoria. Dato che i versi forse «satanici» del suo brano non toccano l'islam, il rischio è minimo e la pubblicità assicurata. Il sistema non e' certo nuovo: anni fa, correva il 1967, la prima e piissima canzone di Guccini portata al successo dai Nomadi (Dio e' morto, che riprendeva semplicemente una notissima frase di Nietzsche) fu censurata dalla Rai, anche se trasmessa invece dalla Radio Vaticana. Nel '71, quando Oliviero Toscani e Emanuele Pirella lanciarono per il marchio Jesus Jeans una campagna basata sul famoso slogan «Chi mi ama mi segua» campeggiante sul lato B di una modella, scandali, polemiche e scomuniche si sprecarono; e quella pubblicità è ricordata ancora oggi. Ora, a parte l'azione da commando (è successo di recente ad Avignone) e le intemperanze di certi fondamentalisti americani sembra che ogni volta si ripeta, con maggiore o minore zelo, un copione ben noto, al più con qualche variazione nel gioco delle parti: chi invoca la censura guadagna consensi rispetto alla propria area di riferimento e talvolta riesce a ottenerla, mentre il presunto «blasfemo», anche se censurato, incassa un dividendo di notorietà (postuma nel caso di Martin Kippenberger, l'autore della rana crocifissa, morto quattordici anni fa). Ma siamo sicuri che le cose siano così semplici? Il filosofo Giulio Giorello, autore di un libro recente che e' nello stesso tempo duro e rispettoso (Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Longanesi), ci fa notare come, obiettivamente, la «provocazione» che fa uso di simboli cattolici sarà anche facile e persino redditizia, ma perché nel mondo cristiano abbiamo avuto l'Illuminismo e la secolarizzazione, e quindi una società pluralista. Se però le religioni pretendono di essere un fatto pubblico e non una questione privata di coscienza, insomma se «vanno in piazza», allora è ovvio che in piazza può succedere di tutto. «Indignarsi per la rana crocifissa - dice Giorello - è ridicolo in un Paese dove si espone il crocifisso negli edifici pubblici. Se imponi simboli in modo pubblico, devi aspettarti che vengano appunto usati come simboli», e nei modi più imprevedibili. Mai come oggi la censura è un'arma spuntata, forse controproducente. Detto questo, sul «buon gusto» di certe provocazioni si potrebbe discutere a lungo. Ma anche su quello di certe reazioni. «Personalmente preferisco il cattivo gusto alla virtù imposta in modo coatto», conclude il filosofo. Come dargli torto.

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