10.8.11

Hemingway. I due necrologi di Montale (Raffaele Manica)

Da “Alias” del 6 Agosto 2011, per gran parte dedicato ad Hemingway, riprendo questa storia curiosa sulla doppia morte dello scrittore americano e sui due necrologi di Eugenio Montale. Ne è autore Raffaele Manica. (S.L.L.)

Prima di morire il 2 luglio 1961, Hemingway morì una prima volta nel gennaio del 1954. Partito il 21 dall’aeroporto di Nairobi, scende il 22 sulle cascate Murchison perché Mary possa fotografarle, e avvicinandosi uno stormo di ibis, il pilota del Cesena, Roy Marsh, nel tentativo di evitare il contatto va a centrare un filo del telegrafo. I giornali danno Hemingway per morto, senza sapere che intanto, salito su un De Havilland Rapide alla volta di Entebbe, stavolta l’aereoplanino ha preso fuoco e l’avventuroso Ernest, per salvarsi, ha sfondato il portellone con la testa, gravemente ferendosi.
Montale, in Satura, scriverà che «Se uno muore / non importa a nessuno purché sia / sconosciuto e lontano». Siccome Hemingway è lontano ma non sconosciuto, prepara un necrologio – è, nel genere, lo specialista del quotidiano – per il “Corriere della Sera” del 25-26 gennaio.
La tesi: che, in Italia, anche senza la fortuna della letteratura americana, Hemingway avrebbe lo stesso avuto fortuna: «Viaggiatore, soldato, cacciatore, mezzo esteta e mezzo matter-of-fact, uomo d’azione e insieme artista di una preziosità quasi decadente», Hemingway, come D’Annunzio e Malraux, appartiene non ai letterati «da tavolino» ma è uno di quegli «uomini impegnati anima e corpo in una vita che fosse anche un’opera d’arte». Segue consueto svolgimento con date e titoli.
L’articolo del giorno dopo, Non era morto, è fin dal titolo un’umoristica ritrattazione e una meditazione sull’arte del necrologio; poi: «Hemingway vittima di un incidente aereo! A caccia! Nell’Uganda! Riflettete sull’estrema verosimiglianza, direi quasi assoluta verità (psicologica) della notizia. Chissà quanti avranno esclamato: “L’ho sempre previsto; c’era da aspettarsela; è l’unica morte degna di lui!”».
La parca dovrà aspettare sette anni. Alla morte di Hemingway, l’articolo – magnifico – per il "Corriere" (4 luglio) reca il titolo Schietta umanità. Prima di aggiungere qualche meditazione sulla falsa morte del 1954 («Quanti necrologi scritti in quell’occasione avrà letto Hemingway! Non dev’essere piacevole per uno scrittore vivo apprendere le prime avvisaglie di quel che sarà poi il giudizio dei posteri. È probabile però che Hemingway non leggesse nulla di quanto si scriveva su di lui»), Montale ricorda l’unico incontro con quello che tuttavia considerava un suo buon amico, un’amicizia fondata su alcuni racconti di In Our Time. L’incontro fu a Venezia nel fatidico ’54, «dopo l’esito molto contrastato del suo romanzo veneziano Across the River and into the Trees» ma prima – così ricorda Montale – della falsa morte, giunta «qualche mese dopo».
È un cattivo ricordo: l’incontro riguarda proprio la falsa morte, ed è un’intervista, come di riparazione, pubblicata sul “Corriere” del 26 marzo 1954: Abbruciacchiato e felice Hemingway è tornato a Venezia.
Così nella commemorazione del 1961: «Lo scrittore aveva dato ordini severissimi al portiere del suo albergo, ma i nomi magici di Silvia [Beach] e di Adriana [Adrienne Monnier] riuscirono a farlo crollare» (nell’intervista del 1954 erano dati per complici un biglietto e «un nostro incontro a Meina, in casa Mondadori»). Le due donne attirano il nome di Ezra Pound, l’«eterno esule», da Montale visitato più volte a Rapallo.
Hemingway «mi ricevette stando a letto e sgocciolando ciò che restava di una bottiglia di whisky. Parlammo, più che altro, “del nostro tempo” […]. Del nostro colloquio – suggellato persino da un abbraccio – non ricordo altro. Hemingway sembrava allora assai più vecchio della sua età; soppressa la grande barba tolstojana, i peli del suo viso sparso di eczemi erano spuntati alla meglio […]. Selvoso, arruffato era anche il suo discorso, multilingue, con prevalenza di un italiano immaginario». E l’uomo confermava la schietta umanità dei suoi libri migliori.
Nell’intervista del 1954 al whisky si accompagnavano alcune bottiglie di Chianti (infine, vedremo, tramutate in Merlot) e, sul pigiama color cannella, Hemingway aveva indossato un pullover. La porta era stata aperta dalla «signora Hemingway che mi pare sia la stessa da me conosciuta anni fa: so che non è la prima moglie, e nemmeno la seconda o la terza». I ricordi funzionano a seconda di come vuol farli funzionare il nostro presente, perché il presente è la costruzione del passato. La poesia porta la data 28 dicembre 1969 e si legge in Satura, un libro pieno di morti. «Il Farfarella garrulo portiere ligio agli ordini / disse ch’era vietato disturbare / l’uomo delle corride e dei safari»: Tortorella, il portiere dell’Hotel Gritti di Venezia ha preso il nome di un diavolo dantesco, ma ha già avuto l’onore di una citazione di Montale nella recensione a Across the River and into the Trees ("Corriere", 26 ottobre 1950: deve essere stato forse lui a fuorviare la memoria di Montale nel 1961). «Lo supplico di tentare, sono un amico di Pound / (esageravo alquanto) […] ed ecco che / l’orso Hemingway ha abboccato all’amo. È ancora a letto, dal pelame bucano / solo gli occhi e gli eczemi. / Due o tre bottiglie vuote di Merlot / avanguardia del grosso che verrà». Parlano «dei ruggenti anni trenta / e dei raglianti cinquanta», fanno un elenco di amici comuni a Montale ignoti. «Quasi piangendo m’impone di non mandargli gente / della mia risma, peggio se intelligenti». Infine, il famoso abbraccio di colui che «morendo due volte / ebbe il tempo di leggere le sue necrologie”.

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