2.8.11

I "Cent'anni" di Garçia Marquez. Il manoscritto spedito a Baires (G. Martin)

Il 22 marzo 2011 “La stampa” a firma M. B (probabilmente Mario Baudino) pubblicava una breve recensione della Vita di Gabriel Garcia Marquez scritta da Gerald Martin (e autorizzata dallo scrittore) appena uscita per Mondadori nella traduzione di Fiamma Lolli. Il quotidiano vi aggiungeva come anteprima due brani relativi al 1966, che “posterò” entrambi, cominciando qui con il racconto dell’avventurosa spedizione all’editore del manoscritto di Cent’anni di solitudine, appena compiuto. (S.L.L.)

Grosso modo nello stesso periodo, poco dopo aver concluso il romanzo, Garcia Marquez scrisse una lunga lettera a Plinio Mendoza, che inizia con una sorprendente dichiarazione di quel che sentiva in quel momento e prosegue spiegando il suo capolavoro appena ultimato e ciò che significa per lui: «Dopo tanti anni spesi a lavorare come una bestia mi sento schiantato dalla stanchezza, senza prospettive chiare eccetto in un campo, l'unico che m'interessa ma che non mi da' da mangiare: il romanzo. La mia decisione, che denuncia un impulso più forte di me, è sistemare le cose in qualsiasi modo pur di continuare a scrivere le mie storie. Credimi, eccessivo o no che ti sembri, non so che cosa mi aspetta.
«Quel che dici del primo capitolo di Cent'anni di solitudine mi ha reso molto felice. E' per questo che l'ho pubblicato. Quando sono tornato dalla Colombia e ho riletto quel che avevo scritto ho avuto la sensazione deprimente di essermi imbarcato in un'avventura che avrebbe potuto finire in una catastrofe come in un trionfo. Così, per capire come l'avrebbero vista gli altri, ho spedito il primo capitolo a Guillermo Cano: poi ho chiamato a raccolta gli amici più esigenti, esperti e sinceri, e gliene ho letto un altro. Il risultato è stato magnifico, soprattutto perché per quella lettura avevo scelto il più rischioso: l'ascensione al cielo di Remedios la Bella, in corpo e anima...
«Sto cercando di rispondere, senza alcuna modestia, alla tua domanda: come scrivo quel che scrivo. In realtà Cent'anni di solitudine è stato il primo romanzo che ho provato a scrivere, quando avevo diciassette anni, e si chiamava La casa, ma dopo un po' l'ho lasciato perdere perché era troppo per me. Da allora non ho mai smesso di pensarci, di cercare di visualizzarlo con gli occhi della mente, di scovare il modo migliore per raccontarlo, e posso garantirti che il primo paragrafo non ha nè una virgola in più nè una in meno dell'altro, scritto vent'anni fa. Da tutto questo traggo una conclusione: quando hai un argomento che ti perseguita, quello comincia a crescerti nel cervello e va avanti per un pezzo e il giorno che scoppia o ti siedi alla macchina da scrivere o rischi di ammazzare tua moglie...».
Dalla lettera si capisce come, scrivendo quelle parole, Garcia Marquez in parte si prepari a difendere il proprio punto di vista - e il proprio romanzo - in pubblico, continuando a prefiggersi una carriera parallela, e di altro livello, in ambito giornalistico. Tra l'altro scrive di avere tre progetti diversi per altrettanti romanzi, che lo stanno «incalzando».
Ai primi di agosto, due settimane dopo aver scritto questa lettera, Garcia Marquez accompagnò Mercedes all'ufficio postale per spedire il manoscritto completato a Buenos Aires. Erano due sopravvissuti a una catastrofe. Il pacco conteneva 490 fogli e l'impiegato decretò: «Sono ottantadue pesos». Garcia Marquez fissò Mercedes che frugava nel borsellino alla ricerca del denaro. Non ne avevano che cinquanta, il che voleva dire spedirne solo metà: Garcia Marquez rimase a osservare l'omino che toglieva un foglio dopo l'altro, come fossero state fette di pancetta, fino a raggiungere il peso che potevano permettersi di inviare. Tornarono a casa, presero la stufa, l'asciugacapelli e il frullatore, li portarono al banco dei pegni e tornarono all'ufficio postale per spedire la seconda meta'. Quando furono di nuovo in strada Mercedes si fermò, si girò verso di lui e disse: «Ehi, Gabo, ora ci manca solo che il libro non vada bene».

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