18.8.11

Quale cultura per quale scuola, quale scuola per quale società (Eros Barone)


Un'aula scolastica negli anni Novanta del Novecento
Ben di rado mi sono qui occupato di problemi della scuola con miei interventi o proponendo testi altrui qua e là raccolti. La ragione è connessa alle caratteristiche di questo blog, che dipende dagli interessi, dalle passioni e anche dagli umori di chi lo compila e compone.
Dalla scuola sono scappato via qualche anno or sono infilandomi in una finestra. Ero ormai nauseato dall’andazzo che stava prendendo quel lavoro che amavo  oltre che stanco dei cinquant’anni trascorsi nelle aule d’insegnamento. Tuttora di scuola ragiono poco volentieri nel timore di trovarmi, come in quei lunedì e in quei giorni di rientro dalle vacanze, costretto da chissà quale interno turbamento costretto a correre al cesso per vomitare tutto quel che sta nello stomaco e nei dintorni.
Credo tuttavia che negli ultimi qualcosa sia cambiato. In me, intanto. Quasi tutto quel che accade nella politica, nella società, nell’economia oramai mi irrita o mi nausea alla stessa maniera: la scuola non è più la causa di una particolare (e maggiore) sofferenza. Sull'argomento mi succede oggi più o meno quanto mi accade per gli altri: m’accendo e m’incazzo di fronte all’evidente ingiustizia, alla velenosa disinformazione; e ancora di più quando vedo persone che stimo e amo adeguarsi alla follia presente e reagire pacatamente alle sue sconvolgenti manifestazioni, come se niente di irreparabile stesse accadendo o fosse già accaduto.
Non vomito più, dunque, ma per la scuola perdo le staffe come per ogni altro tema di discussione. Il sintomo fisico misurabile è un aumento della pressione arteriosa, con picchi che raggiungono e superano i 200, quasi incredibili per uno che prende ogni giorno mezzo chilo di antiipertensivi d’ogni tipo. Ma tant’è; e perfino i medici che ritenevano impossibile una reazione così forte hanno dovuto rassegnarsi alle ripetute misurazioni e suggerirmi di evitare qualsiasi situazione stressante.
Ho trovato un aggiustamento. Niente tv, intanto: non li sopporto questi farabutti d’ogni colore ch’entrano in casa a raccontarti menzogne. Niente discussioni in gruppo: c’è sempre qualcuno che anche senza colpa è tutto dentro il sistema della menzogna. Riesco invece con minore intolleranza e sofferenza a sfogliare i giornali, a cercare nella rete, a leggere qualche articolo o qualche saggio, a rifletterci su. Sarà che si tratta di mezzi più freddi, sarà che mi pare di avere sotto controllo la situazione, ma non mi viene il mal di testa, né mi si alza la pressione; neppure se m’occupo di scuola.
E’ anche per questo che, da qualche tempo, riesco a seguire il tema con un po' più attenzione, per l’importanza oggettiva che credo abbia, e penso di “postare” alcuni testi, più di altri che miei, che possano aiutare la riflessione. Comincio con questo breve saggio che un amico e compagno di valore, Eros Barone, mi ha recapitato tempo fa sulla crisi “della forma-scuola”, un saggio tra pedagogia e politica che mi pare applicare ai tempi nuovi e con creativo acume il metodo e l’approccio gramsciano ai temi dell’educazione. Seguirà, oggi stesso, nel post immediatamente successivo, il testo di due studiosi giovani, il cui impianto, di tipo sociologico sulla linea del “capitalismo cognitivo”, è da ricondurre alla tradizione operaista. ( http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/08/la-scuola-delle-competenze-e-dei.html )Nonostante la grande diversità del taglio a me sembra che le conclusioni siano ampiamente compatibili, se non addirittura convergenti; mentre esse divergono dall’impostazione di un Fofi che sembra dare per perso a un discorso di positiva trasformazione quello che chiama “ceto pedagogico”. (S.L.L.)
La scuola comprensiva Peppino Impastato in Via Serradifalco a Palermo
1. La crisi della forma-scuola
L’intervento di Daniele Balicco sulle proposte avanzate da Goffredo Fofi circa quello che definirei “il buon uso della scuola oggi” (proposte che mi sembrano, per un verso, tanto evasive quanto provocatorie e, per un altro verso, tanto povere quanto riduttive), ruota di fatto, anche se non formula esplicitamente tale problema, sulle seguenti domande: “quale cultura per quale scuola, quale scuola per quale società”.
Avendo progettato, promosso e condotto, fra il 2001 e il 2005, all’interno dell’Irre Lombardia (prima che il sistema pubblico degli istituti di ricerca educativa venisse liquidato dal governo Prodi), una riflessione collettiva e un’esperienza di formazione sui fondamenti teorici e i fini sociali della cultura riformatrice nella scuola, e avendo offerto la sintesi di questa esperienza e di questa riflessione in un volume, Ripensare la forma-scuola, pubblicato dall’editore Franco Angeli, ritengo di poter fornire un contributo utile sia all’analisi della crisi della scuola che alla formulazione di proposte per superare tale crisi.
Dico subito che, a mio avviso, è necessario tenere aperta la catena dei perché, ragionare, cioè, su quella che Riccardo Massa ha felicemente definito la forma-scuola, conservando e, anzi, rendendo ancora più stretti i legami con la tecnica, con la prassi e con la didattica senza tuttavia fare alcuna concessione al tecnicismo, al prassismo e al didatticismo.
Appartengo ad una generazione di uomini nati e vissuti nella scuola, con la scuola e per la scuola. Osservo quindi come sulla scuola intervengano, opinando, valutando e spesso confliggendo, le più diverse figure sociali: imprenditori e politici, giornalisti e intellettuali, psicologi e sacerdoti, insegnanti e sindacalisti, genitori e figli. La domanda che sorge è questa: se non è possibile che una partecipazione così corale e insieme così dissonante al dibattito sulla scuola restringa il suo significato ai problemi degli sbocchi professionali ed occupazionali, degli abbandoni scolastici, del persistere di ampie fasce di analfabetismo, del venir meno di un codice simbolico atto a garantire la comunicazione intergenerazionale, vi può essere allora qualcosa di più profondo a motivarla e a sospingerla, qualcosa che non inerisce soltanto ad una crisi funzionale della scuola, ma alla crisi della funzione stessa della scuola e della cultura moderna che le sta alle spalle? Da qui occorre partire per cercare una via percorrendo la quale si possa pensare sino in fondo la crisi della scuola e andare oltre la Scilla del tecnicismo e il Cariddi del moralismo, contro cui si infrange il dibattito sulla formazione intesa nella sua più ampia accezione di ‘paideia’.
La scuola appare infatti come il luogo in cui si scaricano, spesso vanificandone l’impegno didattico e rendendone insostenibile il compito educativo, gli effetti di una degradazione crescente della cultura di massa, ove al cinismo e al filisteismo degli adulti fa riscontro, in un gioco speculare di rinvio delle immagini reciproche, la rozzezza e la volgarità dei giovani. Così la devianza e il disagio tendono a configurarsi, attraverso le rappresentazioni diffuse dal sistema dei mass media, o come prodotti inevitabili di un determinismo biologico o come conseguenze necessarie della disgregazione della famiglia, mentre le condizioni sociali, culturali ed economiche, da cui traggono la loro origine, si dissolvono nella nebbia delle astrazioni naturalistiche o nella rappresentazione, cara ad una certa aristocrazia intellettuale, della crisi irreversibile della cultura e della eticità che caratterizzano la ‘paideia’ occidentale e, dunque, il suo modello educativo. La narrazione più elegante riconduce questi fenomeni alla spinta impetuosa dei processi di globalizzazione e di massificazione, cui si deve la dissoluzione dell’esperienza, ormai sciolta dagli ancoraggi che la vincolavano vuoi ad una trascendente dimensione spirituale vuoi ad una finita dimensione immanente. La radice di questi processi viene allora identificata nel nichilismo, ossia nella riduzione della ragione ad un insieme di tecniche oggettive.
A questa altezza dei problemi e delle sfide che la contemporaneità pone non solo alla scuola, ma anche all’educazione, occorre allora, per un verso, fare i conti con il carattere epocale della crisi della forma-scuola e, per un altro verso, impegnarsi nel ricercare, nel formulare e nel proporre ai giovani progetti e percorsi che siano dotati di senso e di valore, che non siano poveri e minimalistici ma densi e ricchi di spessore culturale e, perciò, atti a promuovere e a sostenere la loro formazione personale. Contro l’atteggiamento elusivo e cauteloso che si può definire come moderno nicodemismo, vanno quindi recuperati il rischio, il gusto e la responsabilità del confronto e del conflitto tra le idee.
L’assunto che vorrei porre al centro del discorso è che la forma-scuola, ben al di là della funzione conservatrice oppure innovatrice che può svolgere l’istituzione scolastica, sia quanto di più profondo e latente agisce nel dispositivo scolastico e determina i significati dell’esperienza e del pensiero. Questo nucleo è il cuore della scuola e delle pratiche educative che attorno ad essa gravitano; questo nucleo è il campo di esperienza dei giovani, dei genitori e degli insegnanti e l’esercizio della riflessione su questo campo ai più diversi livelli. Orbene, ciò che va sottolineato è che la forma-scuola è in crisi e che questa crisi ha un carattere mondiale. Gli effetti di una simile crisi sono paradossali, perché si traducono in progetti di riforma, che però si inscrivono tutti, quali che siano la composizione e l’orientamento del potere esecutivo (da Berlinguer alla Moratti), in un ambito di riforma degli ordinamenti, senza mai giungere al livello, che è strategico, del rinnovamento dell’asse educativo e della riforma dei contenuti.

2. La centralità dei contenuti culturali
In realtà, il centro del dibattito sulla scuola è stato costituito finora dalle riforme dei programmi e degli ordinamenti. Sennonché, anche quando il discorso si sposta sul terreno del rapporto tra curricolo esplicito e curricolo implicito, vi è un punto che merita di essere ribadito con forza, e cioè che la scuola resta pur sempre centrale come istanza di mediazione culturale finalizzata all’acquisizione di strumenti critici, metodologici e interpretativi che permettano, per l’appunto, di mediare tra il curricolo implicito, serbatoio e fonte di nozioni che si apprendono in modo selvaggio prima o dopo la scuola, e il curricolo esplicito, matrice formale che apre ai domini cognitivi specifici e premessa, posta in atto durante il tempo-scuola, a partire dalla quale costruire competenze metacognitive efficaci.
L’appuntamento con i contenuti non può essere però ulteriormente differito, nonostante l’enfasi di volta in volta accordata agli obiettivi didattici, al curricolo, all’organizzazione scolastica e all’alternanza scuola-lavoro. E l’appuntamento riguarda, insieme con i contenuti, la loro formalizzazione, ossia le discipline, giacché la scuola insegna con le discipline e con le discipline educa e istruisce. Sono molti i prefissi (‘pluri-’, ‘multi-’, ‘inter-’, ‘trans-’ ecc.), che in questi ultimi anni sono stati anteposti al termine ‘disciplina’, ma tale termine, benché esorcizzato e in qualche modo rimosso con l’aggiunta di un prefisso, non ha mai smesso di occupare il centro della scena didattico-pedagogica. In realtà, l’appuntamento con i contenuti implica l’incontro (e lo scontro) con la filosofia.
Proprio quando, nel tempo della crisi della forma-scuola, del tramonto dell’educazione e della fine della pedagogia, ogni margine sembra essersi consumato, proprio quando la filosofia sembra non aver più nulla da dire sull’educazione dei giovani, sulla formazione e sull’istruzione, ecco che la domanda filosofica, con tutta la sua prorompente ingenuità e con tutta la sua dirompente criticità, torna a rimettere in questione, oltre ogni qualunquismo dottrinale e oltre ogni intellettualismo professorale, il senso dell’educare e il senso del fare scuola. Ma questo evento accade perché sia l’educare che il fare scuola chiamano in causa le immagini dell’uomo che hanno alimentato e alimentano la nostra cultura.
3. Quale immagine dell’uomo?
Quelle domande hanno ricevuto, nella società moderna, alcune risposte esemplari: nell’età classica e medievale, l’idea di perfezione, fra il XVIII e il XX secolo l’idea di formazione individuale, negli ultimi decenni la parola d’ordine dell’imparare ad imparare. Il compito affascinante, che questa costellazione di idee - la forma-scuola, il dispositivo scolastico, la formazione, l’istruzione - ci suggerisce e che questo succedersi di stagioni dell’autoriflessione del sistema scolastico ci consegna, nel vivo del processo che va dalle tecnologie di tipo comportamentista sino a quelle di tipo cognitivista e costruttivista, è quello di recuperare, in tutta la sua densità semantica, la provocazione contenuta nell’etimo della parola ‘educazione’. Questa ha a che fare non solo con il verbo ‘educere’ e, quindi, da un lato con l’azione di tipo maieutico del ‘tirare fuori’ e dall’altro con l’azione di tipo metaforico del ‘portare oltre’, ma anche con il verbo ‘educare’ e, quindi, con l’azione di tipo auxologico dell’‘allevare’ e del ‘condurre’. Lo stesso Platone, nella Repubblica, associa due termini come ‘trofé’ e ‘paideia’, che significano rispettivamente ‘allevamento’ e ‘educazione’, confermando quanto sia stretto, nella tradizione occidentale, il legame fra la ‘cura’, campo semantico cui afferiscono l’allevamento e l’accudimento dei soggetti in crescita, e la ‘cultura’, ossia il condurre l’uomo ad assumere la forma che gli deve essere propria. Certo, non va mai dimenticato il carattere antinomico, che i pedagogisti più avvertiti hanno sempre sottolineato, dell’‘educare’ in quanto ‘doppio legame’, per cui i processi di crescita della soggettività, di acquisizione dell’autonomia, di sviluppo delle capacità e di formazione del senso critico non sono mai disgiunti da un carico greve di soggezione, inculcamento, repressione, violenza e intrusione. Ma come non ricordare, a questo proposito, la lezione di Foucault sul dispositivo che opera, ‘eodem tempore’ e ‘uno actu’, come dispositivo di assoggettamento e soggettivazione? Quella lezione che, nel momento stesso in cui ci insegna che l’educazione è una tecnologia politica del corpo, dello spazio, del tempo e delle attività, fa del pensatore francese uno dei massimi pedagogisti del Novecento e del Sessantotto una grande stagione educativa, che ha lasciato, sia nel bene che nel male, segni profondi e duraturi, oltre che nelle vicende politiche, nei modelli di comportamento, nella struttura delle personalità, nel costume diffuso e nello stesso senso comune scolastico.

4. Eteronomia ed autonomia della scuola
E come non ricordare che l’alternativa fra scolarizzazione e descolarizzazione ha in quella stagione il suo atto di nascita? E che, sempre in quella stagione, fu posta in crisi l’identità della scuola come istituzione pubblica dotata di specifiche finalità formative? L’onda lunga che scaturì da quel sommovimento è rintracciabile perfino nelle politiche scolastiche degli ultimi decenni, se è vero che, di fronte alle pretese e alle pressioni (se non di un’organica ideologia della descolarizzazione) di pratiche descolarizzatrici (dai ‘viaggi di istruzione’, che vanno semplicemente eliminati per il loro carattere sia evasivo che classista, alle varie kermesse, come i festival di filosofia, di letteratura e della scienza, del tipo ‘perdi-il-tuo tempo’ e ‘bevi.fin-che-vomiti’), occorre far valere la differenza specifica tra la scuola e la famiglia, quella differenza che, come intercorre fra la scuola, l’azienda, il territorio e le altre agenzie educative, così intercorre fra l’istituzione scolastica e la socializzazione familiare. Giova pertanto ribadire che, pur senza essere (e non lo è né lo può essere) un corpo chiuso, separato e adiàforo rispetto alle dinamiche della vita sociale, ciò che contraddistingue la scuola è pur sempre il suo carattere artificiale e ‘metaforico’, il suo (tendere a) ‘tirare fuori’ e ‘portare oltre’ rispetto ai codici del denaro, del sesso e del potere dominanti in quelle dinamiche: in altri termini, ciò che ‘contra-distingue’ la scuola e il più vasto campo dell’educazione in cui essa è inserita è il loro carattere radicalmente utopico, anche se il più delle volte tale carattere è velato e reso irriconoscibile dagli effetti feticistici di una progressiva naturalizzazione, di cui quelle dinamiche sono produttrici, e da una crescente colonizzazione dei mondi vitali, di cui quei codici sono generatori. Come indica l’immagine machiavelliana dell’arciere che, per colpire il bersaglio, deve mirare in alto e lontano, occorre prendere le mosse da un ripensamento della forma-scuola che sia capace di collocarla in una prospettiva storico-culturale più ampia e più profonda. Diversamente la scuola e chi, a vario titolo, vi opera, a cominciare dai dirigenti e dagli insegnanti per finire con i ragazzi e con i genitori, tenderà a imitare altri modelli - da quello della grande famiglia a quello della piccola azienda, da quello della comunità ecclesiale a quello del servizio sanitario -.
La scuola deve invece restare se stessa: un’istituzione pubblica dove si insegna e dove si impara. Come è stato detto in modo suggestivamente poetico e insieme rigorosamente scientifico, la scuola è lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo.
Un punto assai significativo che, sul piano culturale, caratterizzava (e continua a caratterizzare, poiché non è stata finora abrogata) la riforma Moratti è il determinismo sociale: un determinismo che si fonda sulla tesi della naturalità delle attitudini. Sotto questo profilo, vale la pena di osservare che, se da un lato è vero, come ha spiegato la psicologia moderna, che esistono vari tipi di intelligenza e che l’educazione deve tenerne conto, è altrettanto vero che un’educazione degna di questo nome non può limitarsi ad una funzione di mero adattamento, poiché, pur educando ciascuno secondo le sue attitudini, deve dargli, nello stesso tempo, la possibilità di essere un uomo insieme con tutti gli altri, deve, cioè, tendere a renderlo - per usare una pregnante espressione di Gramsci - contemporaneo alla sua epoca. Ecco perché la dicotomia tra descolarizzazione (intesa come destrutturazione vuoi nella versione anarchica ed emancipatrice di Illich vuoi in quella razionalizzatrice e neomalthusiana sinora qui esaminata) e riscolarizzazione (intesa come semplice ‘ritorno al passato’ vuoi nel senso di un modello neogentiliano vuoi in quello dell’attuale scuola di massa) prescinde dalla complessità e dalla radicalità che rivendica per sé la riflessione sulla forma-scuola, e va perciò trascesa e ricondotta ad una complementarità dialettica. È in tale contesto che occorre procedere, da un canto, alla depurazione critica di quanto vi è di residuale, di caduco e di inerziale sia nell’uno che nell’altro corno dell’alternativa e, dall’altro, mantenendo aperto lo spazio strategico di pensiero e di azione che quella riflessione dischiude, alla valorizzazione degli elementi progressivi che sono ìnsiti in entrambi i corni dell’alternativa. Infatti, per quanto forte e intransigente possa essere la critica della scuola, essa non può identificarsi con la descolarizzazione, anche se va detto che quest’ultima ha un lato senz’altro condivisibile, che consiste nella critica di quello che ho definito il ‘dispositivo’ scolastico. Il merito del concetto di descolarizzazione è, in altri termini, di carattere ‘negativo’, giacché esso ci aiuta a prendere coscienza del fatto che, per quanto assai giustamente la pedagogia cerchi di garantire alla formazione dell’uomo una distanza rispetto al sistema esistente (distanza che può essere massima in Rousseau e minima in Dewey, ma che, comunque, non può mai ridursi a zero), la scuola, in ultima analisi, rispecchia sia la struttura sociale esistente sia gli orientamenti del potere dominante. Per converso, il lato positivo della riscolarizzazione è forse costituito oggi dall’idea dell’innesto di una trasformazione qualitativa nello sviluppo quantitativo della scuola di massa, ossia dalla capacità di tenere unite la necessità di valorizzare l’eccellenza e la possibilità di una formazione onnilaterale dell’uomo, la personalizzazione dei percorsi educativi in termini suscettibili di concreto e motivato apprendimento da parte degli studenti e la fisionomia utopica della scuola come spazio idealmente sottratto alle disuguaglianza sociali, l’attenzione al ruolo che la scuola può svolgere nello sviluppo democratico della società.

5. Un modello epistemologico neoliberista
Ragionare sulla scuola e sull’educazione è un compito serio, per assolvere il quale non è possibile scavalcare impunemente il momento dell’incontro e del confronto con i grandi paradigmi epistemologici e con le teorie che li sostengono. Per questo vi è bisogno di una ricerca di carattere teorico ed epistemologico che riempia il vuoto (e, nel contempo, svuoti il falso pieno) prodotto da paradigmi vecchi, riproposti magari come novità, e da modelli epistemologici obsoleti, utilizzati magari per giustificare questo o quel primato (dell’educazione, dell’istruzione, della comunicazione, dell’affettività, dell’apprendimento, dell’insegnamento, dell’organizzazione, del curricolo, dell’autonomia ecc. ecc.). Si tratta invece, a mio giudizio, di attingere ispirazione, strumenti e categorie dai modelli sistemici e costruttivisti che caratterizzano il paradigma della complessità, cui sono riconducibili gli sviluppi più avanzati delle scienze cognitive, della fenomenologia, dell’ermeneutica, dello strutturalismo e del materialismo storico. È questa, io penso, una via lungo la quale una pedagogia più scaltrita e più agguerrita può giungere a coniugare, evitando che si cristallizzino in antinomie, il cognitivo e l’affettivo, l’educazione e l’istruzione, l’insegnamento e l’apprendimento, la comunicazione e l’organizzazione, l’autonomia e il curricolo, i processi autopoietici e gl’interventi formativi, i condizionamenti biologici e le determinazioni sociali ecc.: una via, dunque, che merita di essere percorsa da chi ‘ha cura’ della scuola e ‘desidera’ creare le condizioni necessarie per un cambiamento della sua forma e del suo dispositivo.
In questo senso, è possibile affermare che il modello epistemologico che ha orientato le riforme scolastiche e, in particolare, la concezione, ad esse sottesa, del rapporto tra scuola ed economia di mercato, è - da Berlinguer alla Moratti e da quest’ultima a Fioroni - rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre sono stati in qualche misura differenti i fini politico-sociali di tali riforme. La tendenza è quella a creare sistemi formativi a due marce, delle quali una è sincronizzata sul tradizionale mercato fordista e l’altra è calibrata in funzione di un mercato postfordista. Si tratta, cioè, di una politica razionalizzatrice e tecnocratica che poggia su una strategia di contenimento delle spesa pubblica nel campo dell’istruzione e di riduzione drastica dell’impegno statale verso la scuola, e che si muove pertanto in direzione di un sistema formativo integrato, ossia di un sistema misto pubblico-privato dell’istruzione, in cui la stessa scuola statale, chiamata a rimodellare i suoi assetti secondo i sistemi organizzativi d’impresa, deve attrezzarsi per consentire al paese di affrontare, in quanto nazione a rischio formativo, le sfide poste dal mercato mondiale.
Ho già osservato come la riforma della scuola sia intesa prevalentemente come riforma degli ordinamenti e dei ‘cicli scolastici’. Un siffatto riordino punta perciò a omogeneizzare e armonizzare la scuola italiana con la scuola europea: i cicli sono lo strumento con cui le scuole nazionali vengono ridisegnate; essi prescindono sia dalle specifiche storie dei sistemi scolastici nazionali sia dai modelli culturali che riempiono di contenuto i ritmi della scolarità nei singoli Stati. Se è evidente la tendenza razionalizzatrice e descolarizzatrice che impronta questo modo di concepire la riforma, è però altrettanto evidente il limite di economicismo che segna il modo di concepire (prima ancora che il modo di praticare) la forma-scuola in rapporto alle politiche della spesa e dello sviluppo perseguite dagli Stati occidentali, così come in rapporto alle strutture produttive e al mercato del lavoro, tanto che non appare azzardato affermare che, anche a livello europeo, pesa più il mercato comune che l’individuazione di un patrimonio culturale comune come base di una scuola europea armonizzata. Senza sottovalutare l’importanza di una modifica degli ordinamenti, va tuttavia ribadito con forza che la qualità scolastica si misura principalmente sull’incidenza che i contenuti del sapere trasmesso assumono nel ‘mondo vitale’ del soggetto in formazione, quindi sulla qualità culturale dei contenuti e soprattutto sul modo in cui i bisogni culturali delle nuove generazioni vengono posti in rapporto con il patrimonio culturale e professionale degli insegnanti. Un eminente pedagogista come Ernesto Codignola sosteneva giustamente che gran parte della riforma della scuola consiste nella riforma dei contenuti dell’insegnamento e in quella della pratica degli insegnanti. Pertanto, la struttura e gli ordinamenti della scuola sono mezzi e non fini, subordinati - e non sovraordinati - ai luoghi, ai tempi e agli strumenti della relazione educativa.
La domanda strategica che occorre porsi è allora se la scansione dei tempi e l’articolazione delle forme organizzative favorisce od ostacola la relazione educativa tra i docenti, mediatori del curricolo esplicito e formale, e gli studenti, portatori di un curricolo implicito e informale, in altri termini se i saperi e i linguaggi formalizzati della nostra epoca trovano una mediazione flessibile ed efficace, pur preservando il rigore concettuale e la coerenza semantica che sono propri dello statuto epistemologico delle discipline, nel lavoro didattico organizzato. L’impressione, che spesso diviene certezza, è invece che questo aspetto concreto della ricostruzione dei codici culturali e simbolici, in cui consiste il valore cognitivo, etico e metariflessivo dell’attività formativa che ha luogo nella scuola, venga sacrificato a una visione tecnocratica protesa a trasporre meccanicamente in essa un metodo che, tra l’altro, non sempre si rivela efficace nella produzione di merci: un metodo basato sull’idea che il mutamento di processo è di per sé un’innovazione di prodotto. Ma se la scuola viene concepita come lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo, è difficile considerare il prodotto che essa fornisce come un prodotto replicabile in dimensioni seriali, senza contare che quella visione è antitetica ad una rappresentazione della scuola che la configuri - secondo il grande principio di Comenio, ‘omnia omnibus omnino’ - come un’‘utopia concreta’ offerta a tutti.
Molto semplicemente - ma, come avvertiva un poeta, non c’è nulla di più difficile, a farsi, della semplicità - ripensare la forma-scuola significa, riprendendo la ‘lezione degli antichi’ e coniugandola con l’‘esperienza dei moderni’, porre e risolvere il problema dei fini sociali e dei fondamenti teorici della cultura riformatrice nella scuola entro lo spazio etico-politico indicato dal secondo comma dell’articolo tre della Costituzione, che recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.» Oggi, come ieri, non è né superfluo né scontato aggiungere che, quando ci domandiamo a che cosa serva la scuola e come debba essere ripensata, occorre tenere ben presente, per dare una risposta corretta a tale domanda, questo articolo della Costituzione italiana.

6. La questione degli insegnanti e la privatizzazione del rapporto di lavoro
Se le considerazioni che precedono sono corrette, è allora necessario contrastare una scissione, che è deleteria per la scuola e per gli insegnanti, nonché, di riflesso, per l’educazione delle nuove generazioni: la scissione tra cultura riformatrice e professionalità docente. Le categorie fondanti del “discorso sul metodo e sul merito” dell’insegnare e dell’educare vanno riprese proprio per evitare che un simile iato si produca e, anzi, per contribuire a promuovere una correlazione organica - e organica in quanto operativa e consaputa - tra la cultura riformatrice (il cui asse è la funzione sociale della scuola, che non può essere né ignorata né cancellata) e la professionalità docente (il cui asse sono le discipline, che non possono essere né svalutate né soppresse).
Diversamente, il rapporto fra teoria e pratica rischierebbe di ridursi, nel campo della formazione di secondo livello e in quello più ampio dove si giocano le strategie educative, a quello che intercorre, nel celebre romanzo di Cervantes, fra don Chisciotte e Sancho Panza, laddove don Chisciotte, che nel nostro caso corrisponde al pedagogista, possiede l’esperienza ma non la fa, e Sancho Panza, che corrisponde all’insegnante, fa l’esperienza ma non la possiede. Ciò che si richiede, e di cui la scuola ha oggi un vitale bisogno, non è uno scambio delle parti, grazie al quale Sancho Panza diventi don Chisciotte e don Chisciotte diventi Sancho Panza, poiché uno scambio delle parti, oltre ad essere presuntuoso e irrealistico, lascerebbe immutata la relazione. Ciò che si richiede è, al contrario, una correlazione dinamica ed organica, che faccia della cultura riformatrice e della professionalità docente i poli di un campo di tensioni capace di modificare sia l’una che l’altra.
Infine, circa la possibilità di restituire prestigio, stima e autostima alla categoria dei docenti, mi limito ad osservare che i processi di proletarizzazione che hanno investito la categoria sono oggettivi e, all’interno del sistema economico-sociale capitalistico, irreversibili (un sintomo inequivocabile di tali processi è, ad esempio, la crescita della sindacalizzazione). Ciò significa che l’idea di un’emancipazione della categoria ‘ut talis’, che si realizzi indipendentemente dall’insieme delle classi lavoratrici, è altrettanto illusoria quanto fu, nel corso dei dibattiti dell’800, l’idea di un’emancipazione degli ebrei ‘ut tales’, come dimostrò a suo tempo Marx nella “Questione ebraica”.
Ciò detto, è assolutamente vero che i docenti devono riacquistare la piena consapevolezza della funzione (non socio-assistenziale ma) intellettuale e morale inerente al loro lavoro, contrastando in primo luogo i processi di privatizzazione e, in particolare, la “madre di tutte le privatizzazioni”, che è stata, con il governo Amato del 1992, la privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego. Prima di allora, infatti, in base alla tradizione umanistica della scuola italiana il rapporto di lavoro era stato sempre concepito come un rapporto di lavoro del tutto disinteressato rispetto alla didattica e agli studenti: i diversi insegnanti ricevevano una retribuzione sostanzialmente omogenea per un lavoro sostanzialmente omogeneo, privo di qualsiasi competitività, regolato dai meccanismi dell’anzianità e dalla stima dei colleghi, del preside, degli allievi e delle famiglie. La privatizzazione del rapporto di lavoro è stata poi accolta nel contratto collettivo di lavoro del 1994, che ha trasformato il ruolo ordinario in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quindi, in linea di principio, risolubile, ha introdotto forme di retribuzione accessoria per un ampio spettro di prestazioni aggiuntive e ha realizzato una scala mobile alla rovescia, agganciando la dinamica retributiva al tasso d’inflazione programmata, cioè pianificando la riduzione degli stipendi, e abolendo gli scatti biennali, sostituiti dagli attuali incrementi retributivi per anzianità ogni 6 anni.
Fu a questo punto che la logica perversa dei rapporti mercantili poté innestarsi nel profondo dell’attività scolastica. Infatti, a causa dell’impoverimento economico che ha investito la categoria, le attività aggiuntive, svincolatesi dalla dimensione del volontariato che una minoranza del corpo insegnante aveva sempre espresso, sono diventate uno strumento improprio ma generalizzato di recupero retributivo, ed è all’insegna di tale recupero che la categoria ha guardato ai corsi di recupero (non è un bisticcio di parole!) e si è resa disponibile alle più svariate attività aggiuntive. Le forze dominanti hanno così giocato due carte allo scopo di privatizzare il rapporto di lavoro nella scuola, modellandolo su quello proprio dell’industria privata: la crescente insicurezza di tale rapporto, conseguenza sia della diminuzione della popolazione scolastica che delle politiche di riduzione della spesa pubblica nel settore dell’istruzione, e la disponibilità degli insegnanti a prestazioni aggiuntive di lavoro per un recupero retributivo.
L’intreccio sempre più stretto fra la crisi epocale della forma-scuola, la crisi sociale della scuola e la deprofessionalizzazione degli insegnanti richiede dunque uno sforzo di analisi, di proposta e di organizzazione inedito, rispetto al quale, per quanto pregevoli e utili, i contributi settoriali rivelano tutta la loro insufficienza. La funzione progressiva della scuola è legata infatti non solo all’elevamento dei livelli culturali delle nuove generazioni, non solo al riscatto degli insegnanti dalle condizioni di avvilimento e di degrado imposte dalle politiche neoliberiste nel campo dell’istruzione pubblica, ma anche alla necessità storica, per dirla ancora una volta con Marx, di “strappare l’educazione all’influenza della classe dominante”.

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