18.8.11

Il degrado della scuola. Competenze e pacchetti (S.Di Fresco - M.Vescovi)

Dai primi di agosto 2011 nel sito “L’ospite ingrato”, rivista on line del Centro studi Franco Fortini, è leggibile un testo redatto da Silvia Di Fresco e Matteo Vescovi dal titolo L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze. Alcune riflessioni sui cambiamenti in atto nel sistema scolastico italiano. Si tratta di un saggio molto documentato, che fa uscire il dibattito sul sistema scolastico dalla banalizzazione che la pur giustificata polemica sui tagli induce e lo legge nel decisivo contesto europeo e mondiale, dentro le tendenze del capitalismo contemporaneo. Sullo sfondo del saggio ci sono le teorizzazioni sul “capitale cognitivo”, da cui in tanti fanno discendere nuove proposte sui soggetti possibili di una trasformazione egualitaria (vedi ad esempio i lavori di Sergio Bologna, esplicitamente citato, di cui c’è qualche traccia anche in questo blog).
Io non trovo – e talora ne ho accennato le ragioni – quelle teorizzazioni convincenti, ma ciò non toglie che da esse e ancor più da molte analisi particolari ad esse collegate si possa e si debba imparare molto. Per esempio in questo lavoro sulla scuola l’ipotesi centrale mi pare ampiamente confermata dalla documentazione che la correda.
Di Fresco e Vescovi sono convinti che la crisi dei sistemi scolastici pubblici dell’Occidente, che il loro vero e proprio degrado siano innanzitutto una scelta delle classi dominanti e che le finalità siano legate al controllo della forza lavoro attuale e futura. La trasformazione della scuola, da “scuola della conoscenza” sistematica e critica a “scuola delle competenze” organizzate in pacchetti e funzionalizzate a verifiche di controllo misurabili (test ed altro), prefigura il tipo di lavoratore che è nello stesso tempo flessibile e semianalfabeta, che è più facilmente gestibile e controllabile dal sistema produttivo.
Il senso del loro scritto è anche una proposta di lotta, sul modello gandhiano, rivolta in primo luogo agli insegnanti ed è quella di una “non collaborazione intelligente”. Il degrado programmato non ha spesso neanche dalla sua la forza della legge e procede attraverso gli stati di emergenza, le circolari, la routine imitativa, l’azione intimidatoria dei dirigenti scolastici. Di Fresco e Vescovi ritengono che sia possibile sfruttare i varchi che le leggi e i regolamenti tuttora lasciano aperti per sabotare il disegno del potere e far discendere da questa possibilità forme di resistenza e di organizzazione di base. Mi pare una indicazione giusta. Del lavoro pubblicato da “L’ospite ingrato” riprendo qui un ampio stralcio della prima parte (di Silvia Di Fresco) e le proposte finali di entrambi gli autori. Il corpo centrale del saggio, redatto da Matteo Vescovi, ha come temi le politiche scolastiche in Italia e i test INVALSI. Ne proporrò alcune parti nei post dei prossimi giorni.
P.S. Ho appena “postato” un altro testo sulla scuola d’oggi, a mio avviso importante, di Eros Barone, cui ho premesso alcune mie personalissime considerazioni cui rinvio gli interessati: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/08/in-questo-blog-di-rado-mi-sono-occupato.html (S.L.L.)


State pur tranquilli / ci saranno sempre
più poveri e più ricchi / ma tutti più imbecilli.

G.Gaber, La razza in estinzione

Dove va la scuola. Società della conoscenza / società del controllo
di Silvia Di Fresco


Sulle pagine della rivista «L'ospite ingrato» dedicata al tema della conoscenza, Sergio Bologna, dopo aver sottolineato l’inefficacia dell’attuale sistema formativo, concludeva il suo articolo chiedendosi quale possa essere il futuro degli studi umanistici in un contesto in cui il lavoro, e il suo linguaggio, sono altamente dominati dalla tecnologia. Il problema ovviamente non riguarda solo l’Italia e non coinvolge solo aspetti interni alla didattica, ma riguarda il modello di società che saremo in grado di immaginare per risolvere i giganteschi problemi ecologici e sociali che il pianeta si trova ad affrontare. È quella che recentemente Martha Nussbaum ha definito come «crisi dei saperi socratici», cioè di quei saperi che sviluppano competenze non misurabili come la capacità di confrontarsi e mettersi in discussione, di assumere il punto di vista dell’altro, di produrre soluzioni innovative (e non esecutive) rispetto ai contesti in cui sorgono i nostri problemi. Saperi che rappresentano le finalità di un’educazione rivolta alla costruzione di una comunità democratica, all’interno dei quali l’insegnamento di materie letterarie e scientifiche va salvaguardata rispetto a un’educazione schiacciata sui saperi tecnici e specialistici. Sostiene la Nussbaum che tali insegnamenti hanno persino una finalità economicistica indiretta in quanto «l’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte, creative. La letteratura e le arti stimolano queste facoltà. Quando mancano, la cultura aziendale perde colpi in fretta».
Essendo questi saperi strumenti per la produzione del cambiamento, in apparenza tutto sembrerebbe chiaro: se si vuole produrre alternative alla crisi economica esistente bisogna investire sui saperi socratici, altrimenti il sistema produttivo non riuscirà a mettere in circolo nuove idee e quindi a risollevarsi. Ora, le continue revisioni dei sistemi scolastici degli ultimi venti anni sia a livello europeo che in altre nazioni, pur prospettando a parole di perseguire finalità di ampio respiro, sembrano inspiegabilmente produrre effetti contrari sulla popolazione scolastica, sia in termini di decadimento degli apprendimenti sia in termini di risorse sociali che i ragazzi acquisiscono durante il loro percorso scolastico. Dando qui assodato il fatto che, nella nostra economia, l’accumulazione del profitto sia in prevalenza dovuta a dispositivi immateriali, una delle cause principali di questa crisi dei sistemi educativi, a nostro avviso, è proprio quella di aver pensato alla conoscenza nell’ottica della propria utilizzazione all’interno del mercato del lavoro, facendo quindi coincidere il bagaglio cognitivo in nostro possesso con l’utilità che esso produce3. Tale concezione ha di fatto non solo prodotto gravi storture nell’organismo della Pubblica Istruzione, ma ha determinato, al suo interno, anche la dequalificazione stessa della conoscenza tout court. Se, infatti, il sapere degli individui diventa un prodotto che gli stessi possono acquisire (o meglio acquistare), va da sé che esso, per essere capitalizzato, debba essere contabilizzato. Le conoscenze richieste, quindi, devono essere ridotte a pacchetti di cosiddette “competenze” più o meno complesse di cui va “certificata” appunto l’acquisizione, considerata così detenuta in via definitiva dall’alunno (al pari di un utensile), salvo poi doversi aggiornare continuamente a causa della loro obsolescenza. In questo modo, il compito di educazione passa dalla formazione (dare una forma) del cittadino a quello dell’informazione (trasmettere pacchetti di conoscenze e competenze prestabilite) trasmesse all’utente, con tutto ciò che questo comporta.
In questa sede, non vogliamo entrare nel merito dell’analisi delle forme economiche in atto, ma sottolineare come queste ultime rappresentino un modello paradigmatico dei sistemi educativi che si vanno realizzando a livello internazionale e, in particolare, nel nostro paese. La nostra tesi è che questo modello sia gravemente distorsivo delle relazioni educative e produttore di nuovi meccanismi di controllo sociale, finalizzati alla riproduzione dell’attuale sistema di accumulazione diseguale del profitto. Per prima cosa, quindi, occorre riflettere sulla definizione di ciò che in questo contesto si intenda debba fornire la scuola ai cittadini che la frequentano. Da questo punto di vista, la sintesi operata in questi anni dai lavori del Parlamento e della Commissione Europea sono esaustivi della visione che si va promuovendo nell’UE. Nelle raccomandazioni 962 del 2006 "Le competenze chiave per l’educazione e la formazione per tutta la vita” del Parlamento e Consiglio europeo, si legge:

Le competenze chiave sono essenziali in una società fondata sulla conoscenza e garantiscono vantaggi nel rinnovo della mano d’opera. La flessibilità di chi le acquisisce gli permette di adattarsi più rapidamente all’evoluzione costante di un mondo caratterizzato da una grande interconnessione. Esse costituiscono anche un fattore essenziale di innovazione, produttività e competitività, e contribuiscono alla motivazione e soddisfazione dei lavoratori, oltre che alla qualità del lavoro”.

Successivamente, senza chiarire che cosa si intenda in questo contesto con il termine competenze, si passa alla definizione di queste «competenze di base» richieste ai futuri cittadini europei, che prevedono capacità e conoscenze di basso profilo (giustificate dall’esigenza di essere accessibili a chiunque) e che riguardano: la capacità di esprimersi nella propria lingua madre e nelle lingue straniere; la capacità di risolvere diversi problemi della vita quotidiana di carattere scientifico-matematico; la capacità di utilizzare le tecnologie informatiche; la capacità di «apprendere ad apprendere» intesa nel senso banalizzato di sapersi adattare ai cambiamenti; «competenze sociali e civiche» che corrisponderebbero al benessere personale e collettivo e alla capacità dell’individuo di inserirsi all’interno dei contesti sociali e politici; «lo spirito d’iniziativa e d’impresa» ovvero la capacità di passare dall’idea all’attuazione in modo che l’individuo sia in grado di cogliere le occasioni che gli si presentano; e infine, una certa sensibilità estetica che implichi la consapevolezza dell’importanza dell’ «espressione creatrice di idee».
Si tratta in sostanza di un ritratto dell’uomo medio europeo, il quale deve possedere un livello di istruzione base al limite dell’analfabetismo, deve aver introiettato il modello individualista e neoliberista della società e aver accettato la continua mobilità lavorativa, sviluppando capacità individuali di adattamento alle esigenze di un contesto per definizione precario, le cui oscillazioni sono tanto incomprensibili quanto inevitabili, proprio come il destino nell’antica Grecia. D’altra parte non si fa alcun cenno a capacità che prevedano la costruzione di saperi critici e che si basino sull’acquisizione dei fondamenti delle discipline insegnate, né viene sentita l’esigenza di valorizzare l’autorganizzazione collettiva, o la promozione di valori cooperativi, ecologici, antiautoritari (fondamentali per la coesistenza democratica), ma ci si accontenta di citare tra parentesi generiche affermazioni di democrazia, giustizia e uguaglianza.
In questo quadro, è evidente che all’Istruzione è assegnato il raggiungimento di nuovi obiettivi nell’ottica della riproduzione di un certo profilo di lavoratore adatto alle mutate esigenze economiche. Nel fordismo postbellico, infatti, la funzione della scuola era quella di produrre e trasmettere i saperi di base per poi specificarli, all’interno di percorsi diversificati (liceali/professionali), coerenti con la polarizzazione sociale dei saperi stessi, anticamera della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Nell’era del capitalismo cognitivo, invece,

“la messa in discussione della tendenza alla polarizzazione dei saperi va di pari passo, a livello macro economico, con la crescita di quella parte del capitale detta immateriale (sanità, educazione, ricerca, ecc.) che oltrepassa oramai quella del capitale materiale. Insomma, la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte della sfera del lavoro salariato e dell’universo mercantile, principalmente nel sistema di formazione e di ricerca. [In tale contesto] […] i tempi lunghi della formazione e dell’apprendimento, necessari a una capacità competitiva fondata sull’innovazione e sul coinvolgimento reale dei lavoratori, sono spesso sacrificati al profitto di breve periodo della flessibilità reattiva alle mutazioni della domanda e di una visione che fa dell’impiego la sola variabile di aggiustamento che permette di far apparire dei risultati finanziari immediatamente visibili. Il controllo attraverso l’obbligo di risultati si sostituisce al controllo attraverso la prescrizione dei mezzi e delle procedure”. (Didier Lebert e Carlo Vercellone in Capitalismo cognitivo: conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Manifestolibri, Roma 2006, p. 31, 33).

In quest’ottica, e come d’altronde emerge dal basso profilo delle competenze chiave individuate dal Parlamento europeo, per coloro che occuperanno i posti dirigenziali (20-25%) in questa società, il livello di preparazione conseguito negli attuali sistemi scolastici è già obsoleto, mentre per quel 40-50% che sarà impiegato in posti a livello di qualificazione molto bassa, quello stesso sapere, risulterà superfluo. Ecco allora che l’esigenza di tagliare risorse all’attuale sistema d’istruzione pubblica e la volontà di trasformare il docente in un facilitatore (altrimenti detto tutor) risulta coerente con il proposito di mantenere tale forbice sociale, così da predisporre i primi a un sapere specialistico acquistabile altrove e da privare i secondi di quelle conoscenze utili all’uomo, ma non al lavoratore flessibile/precario della nuova economia.
Il cambiamento in questa direzione è stato avviato in Italia a partire dalla legge sull’autonomia del 1997, anche se in realtà era già dalla fine degli anni Ottanta che la classe politica pensava a come raggiungere i traguardi suggeriti dalla Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Quest’ultima, infatti, sin dal 1989 faceva presente, in particolar modo alla Comunità Europea, che era necessario moltiplicare i partenariati tra le scuole e le imprese invitando gli industriali a prendere parte attiva allo sforzo educativo e gli Stati a muoversi verso un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi. Il passaggio dalla teoria alla pratica è stato breve: nel 1992, con il trattato di Maastricht, l’Unione europea inizia a occuparsi di scuola e il rapporto tra ciò che ERT dice e ciò che l’Europa fa è piuttosto stretto.

“La responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento [ERT, 1995]”.


“Non abbiamo tempo da perdere. [...] Ci appelliamo ai governi perché diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i metodi d’insegnamento con la tecnologia» [ERT, 1997]”.

Nello stesso anno la Commissione europea pubblica il Libro bianco sull’Istruzione nel quale tra le altre cose si può leggere:

“IV Le vie del futuro. Il problema cruciale dell’impiego, in una società in continua trasformazione, spinge inevitabilmente i sistemi di educazione e di formazione a modificarsi. È importante mettere al centro delle nostre preoccupazioni la pianificazione di una formazione adatta alle prospettive di lavoro e impiego. La necessità di un tale sviluppo è condivisa ormai da tutti e la migliore prova di ciò è la fine delle grandi dispute ideologiche sulle finalità dell’educazione. La questione centrale è di andare verso una maggiore flessibilità dell’educazione e della formazione, permettendo di tenere conto delle diversità delle richieste delle persone. […] Questo sforzo di adattamento si è concentrato in particolare in tre principali direzioni: l’autonomia degli attori della formazione, la valutazione dell’efficacia dell’educazione e la priorità riconosciuta alle persone in difficoltà”.
Il documento continua sostenendo l’esigenza che i sistemi di educazione tradizionali si rendano più flessibili per adattasi alle mutazioni del mercato del lavoro e alle richieste di una «società dell’ apprendimento continuo» (traduzione letterale di «learning society» rispetto alla più diffusa «società della conoscenza»). Invita inoltre le istituzioni educative ad adeguarsi alla certificazione dei propri risultati, in modo da rendere paragonabili gli esiti della formazione e abbandonare le pretese di strutturare i propri percorsi d’istruzione secondo una logica, quella degli esami e dei diplomi, ritenuta troppo rigida rispetto alle esigenze attuali. In sostanza il dibattito sulle finalità dell’educazione sarebbe venuto meno in quanto le imprese avrebbero riconosciuto l’esigenza di un’istruzione diffusa, ma adeguata alle competenze minime richieste per adattarsi alle sue esigenze. Ciò implicherebbe, quindi, di conseguenza, un adattamento acritico dei sistemi di istruzione europei a queste nuove esigenze.
A ben vedere, dunque, non possiamo considerare le riforme della scuola attuate da metà degli anni Novanta ad oggi come tentativi di uscire da una supposta crisi educativa, bensì esse vanno interpretate come mezzi per realizzare un nuovo modello di società, basato su un nuovo rapporto tra educazione, lavoro e cittadinanza. Alla luce di tutto ciò, si può legittimamente ritenere che si tratti di azioni legislative che producono, piuttosto che correggere, la crisi educativa, accentuando il decadimento dei livelli di istruzione e la frammentarietà dei processi educativi.
In sostanza, quello che viene proposto all’interno della scuola è il dispiegarsi di un modello sociale non lontano da quello che Deleuze, già nel 1990, definiva società del controllo, ovvero una società in cui (a differenza dei sistemi disciplinari del XIX secolo dove si era inseriti, in modo quasi ininterrotto, all’interno di istituzioni totalizzanti quali scuola, ospedale, esercito, fabbrica, carcere, ecc.) non si termina mai nulla, non si possiede mai un’identità definita (non più firma, ma password), non si è mai pienamente dentro o fuori l’istituzione. Il controllo, infatti, è una modulazione che si modifica continuamente.
Ciò appare evidente, per quanto riguarda l’Italia, se consideriamo non solo l’effetto dei tagli all’istruzione pubblica nell’equilibrio con la scuola privata, ma anche, per esempio, l’introduzione strumentale di sistemi per la valutazione del merito all’interno del sistema scolastico. Questi strumenti si configurano come veri e propri dispositivi panoptici14, che insieme a controllare i saperi, producono un disciplinamento degli studenti e dei docenti funzionale agli obiettivi esplicitati nei succitati documenti dell’ERT.
Una quarta magistrale degli anni Novanta del Novecento
Proposte conclusive
Decostituzionalizzazione/Non collaborazione
di Silvia Di Fresco e Matteo Vescovi

«La tradizione degli oppressi ci insegna che
“lo stato di emergenza” in cui viviamo è la regola.
Dobbiamo giungere a un concetto di storia
che corrisponda a questo fatto.
Avremo allora di fronte, come nostro compito,
la creazione del vero stato di emergenza.»
W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia

Per concludere, non vorremmo che questa riflessione rimanesse solo una elaborazione teorica, ma che indicasse a partire dall’analisi, il campo di azioni che possono mettere in discussione la realizzazione di un processo che trova alleati in tanti luoghi e tra molti colleghi. Se, come abbiamo già evidenziato, la trasformazione passa attraverso la costruzione di uno stato di emergenza che si permette di scavalcare gli strumenti legislativi a cui si dovrebbe attenere l’azione di governo (si tratta di un processo che è stato definito di decostituzionalizzazione39, e che si realizza attraverso quella che la Klein ha definito shock terapy). Se, in ogni caso, questi provvedimenti trovano applicazione grazie al fatto che si presentano a chi deve applicarli con la forza della legge, anche se leggi non sono, ciò che li fa apparire inarrestabili non è altro che l’effetto della superficiale accettazione con cui vengono vissuti. D’altro canto, questo modo di governare mostra la sua debolezza proprio nell’impossibilità di applicarsi secondo gli iter legislativi corretti ed ogni provvedimento porta dentro di sé numerose falle. Quella a cui stiamo assistendo è, dunque, un’ascesa arrestabilissima, a patto però di assumersi la responsabilità di non dare atto ad alcuna delle disposizioni che vanno in questa direzione e che non si è obbligati a svolgere. Una mobilitazione che può rivendicare con forza la propria indisponibilità a collaborare con questo progetto di dequalificazione e controllo dell’educazione e che può vantare illustri maestri al suo fianco, non ultimo il Gandhi della «non collaborazione».

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