26.8.11

Risorgimento italiano. Il Cilento rivoluzionario e le ribellioni dimenticate.

Nel settembre dello scorso anno, in occasione alla presentazione ad Acciaroli del film di Mario Martone Noi credevamo, Michele Fumagallo intervistò lo storico ed editore Giuseppe Galzerano. Il film infatti è ispirato alle Memorie di Antonio Galotti, che rievocano alcune pagine del Risorgimento repubblicano nel Cilento e che furono nel 1998 curate e pubblicate da Galzerano. L’intervista, di cui riprendo una parte, è stata pubblicata da “il manifesto” il 6 ottobre 2010. (S.L.L.)
Una immagine dal film Noi credevamo
“Il rischio è che si aggiunga confusione a confusione senza far capire le origini vere di un'unità italiana concepita in modo del tutto opposto alla conclusione dei Savoia. Cioè un'unità repubblicana vera, non un'annessione. E questo senza nulla concedere al regime oppressivo borbonico di allora e alle revisioni interessate e neoborboniche di oggi. C'è un punto da cui non si può prescindere per capire le origini del Risorgimento al Sud e non solo. Questo punto è la rivolta del 1828, episodio da cui parte non a caso anche il film di Martone. La rivolta, organizzata dai filadelfi di Antonio Galotti e appoggiata anche dalla Francia, scoppia nel giugno del 1828 con l'assalto al forte di Palinuro. In pratica gli insorti chiedono due cose: la riduzione del prezzo del sale e la concessione della Costituzione Francese. Il re borbonico incarica il maresciallo Francesco Saverio Del Carretto, ex carbonaro pentito, della repressione, che fu durissima e spietata. Del Carretto usa una tecnica che oggi chiameremmo nazista, in stile eccidio di Marzabotto. Il maresciallo decide di radere al suolo e bruciare il Comune di Bosco, reo di aver accolto con benevolenza e allegrezza gli insorti. Il militare arriva anche ad incendiare la montagna di Monteforte Cilento per catturare i fratelli Capozzoli. Istituito un tribunale militare, gli insorti vengono condannati a morte, le loro teste staccate dal cadavere ed esposte in gabbie di ferro sopra colonne innalzate di fronte alle vie e alle piazze dove abitavano i parenti degli uccisi. Ironia del linguaggio, queste macabre costruzioni vennero chiamate dalla polizia borbonica «monumenti di giustizia». Soltanto nel 1860, con l'arrivo di Garibaldi, questi monumenti all'orrore saranno abbattuti”.

Perché consideri così importante la rivolta del 1828?
Perché ritornerà sempre in seguito come memoria e insegnamento per gli altri, in una sorta di "linea repubblicana" che il miglior Risorgimento ha sempre avuto. In fondo gli insorti, oltre all'abbassamento del prezzo del sale, chiedono la Costituzione Francese. Poi va detto che è una rivolta partecipata. Non ci sono numeri ufficiali ma al sindaco di Roccagloriosa, raggiunta dopo Palinuro, gli insorti chiedono provvigioni per cinquecento persone. Nel frattempo comincia la manipolazione, tipica di un potere dispotico. A San Giovanni a Piro, comune borbonico, accusano Antonio Galotti di furti di beni preziosi. È forse il pretesto per la dura repressione. Tieni presente che il Cilento è una sorta di terra di cerniera nel Regno di Napoli. La repressione è da manuale: si distrugge e incendia Bosco, comune autonomo, per sottometterlo come frazione al comune di San Giovanni a Piro, che era di assoluta fedeltà borbonica. Nel rapporto al re Del Carretto scrive cinicamente di «spettacolo maestoso tra le fiamme». La repressione continua anche contro le donne che a Montano Antilia aspettavano gli insorti cucendo le coccarde bianche simbolo dei rivoltosi. Alessandrina Tambasco, che la polizia borbonica indica come amante di Galotti, ma in realtà fu una delle eroine della rivolta cilentana, viene condannata a dieci anni di prigione insieme alla madre e a due sorelle con l'accusa delle coccarde. Sorte peggiore toccherà al marito, condannato a 25 anni e morto nel carcere di Vallo della Lucania. La repressione continua anche dopo, quando, alle persone di Bosco che implorano il sovrano di poter ricostruire la propria casa, il re non si degna di una risposta. Ecco, bisognerebbe ricordare tutte queste cose ai neoborbonici di oggi e a tutti quelli che minimizzano la brutalità e la repressione borbonica nel Regno di Napoli”.

Come finì quella rivolta?
“La fine di quella rivolta è da manuale perché, se ovviamente non raggiunse i suoi scopi, ebbe una risonanza enorme in Europa, e dette uno scacco terribile al Regno di Napoli. Dunque, quando gli insorti scappano perché hanno perduto, restano in sette: i tre fratelli Capozzoli (che poi ritorneranno in Cilento nel 1829, dove verranno arrestati e fucilati a Palinuro), Antonio Galotti, Domenico Antonio Caterina (antenato di Mario Martone per parte di madre), Pasquale Rossi e un certo Ciardella. Riescono a fuggire da Paestum verso Livorno. Da lì si dirigono verso la Corsica, dove vengono arrestati. Il governo napoletano chiede l'estradizione di Galotti per reati comuni (il famoso furto), ma in Francia si parla sui giornali dei patrioti cilentani, della distruzione di Bosco, e molti chiedono il diritto d'asilo. Il governo napoletano riesce a corrompere un prefetto corso che permette a degli emissari borbonici di arrivare al carcere e sequestrare il prigioniero, violando quindi la sovranità della Francia. Nel frattempo la Francia ha riconosciuto agli insorti i diritti politici e chiede quindi, con vibrata protesta, l'estradizione di Galotti, nel frattempo condannato a morte a Napoli. Il re borbonico, per placare le ire dei francesi, tramuta la condanna a morte in dieci anni di esilio all'isola di Favignana. Ma la Francia non ci sta e pretende il prigioniero indietro. Il governo di Napoli è costretto a cedere e Galotti ritorna dapprima in Corsica e poi in Francia come uomo libero. Lì scrive il suo libro, che ha successo nelle edicole francesi ed è un grande smacco per il Regno di Napoli. Ritroveremo il nostro Galotti a Napoli nel 1848, ritornato a continuare la lotta. Poi ancora lo ritroveremo nella Repubblica Romana con Mazzini e Garibaldi a combattere contro il Papa. Quando la Repubblica Romana viene sconfitta nel 1849 ritorna in Francia dove muore”.

Anche la vicenda Capozzoli richiamò attenzioni oltralpe, a dimostrazione che la storia del Cilento e delle sue rivolte non fu mai possibile rinchiuderla in ambito locale.
“Tanto per stare ai documenti, c'è quello straordinario del giornalista francese Charles Didier che viene mandato nel Cilento da Mazzini (lo presenta agli amici come «un nostro compagno di lotta») a interessarsi dei fratelli Capozzoli. Didier scende in Cilento ma viene arrestato a Vallo della Lucania e non riesce quindi ad incontrare i Capozzoli. Nel 1931 pubblica in Francia un saggio sulle rivolte cilentane sulla “Revue des deux mondes”. Riscrive poi un altro saggio sul Cilento in un libro dell'anno dopo. E si tratta davvero di un reportage molto bello. Scrive, tra l'altro sui martiri decapitati e sulla loro macabra esposizione: «Vallo della Lucania ha parecchi di questi terrificanti trofei. Ve ne sono in tutti i paesi e persino sul poetico promontorio di Palinuro. Ho visto la testa di un vecchio i cui capelli bianchi macchiati di sangue sventolavano dall'alto del palo su cui era piantata davanti alla sua abitazione»”.

La rivolta del 1828 con Galotti e gli altri, quella del 1848 con Costabile Carducci e altri liberali, quella di Carlo Pisacane nel 1857, sono alcune delle più importanti tra quelle che precedono l'arrivo di Garibaldi e la nascita della nuova nazione. Perché s'è parlato così poco del Cilento?
“La risposta sarebbe lunghissima. Tieni presente che il libro di Galotti fu pubblicato in Francia ma non da noi. L'ho pubblicato io in anteprima in Italia ma soltanto nel 1998, cioè circa 150 anni dopo. Adesso, grazie al film Noi credevamo di Mario Martone, si può riprendere una storia più in termini di massa e meno di élite. Martone, del resto, mi diceva scherzando che partiva dal Cilento per ricostruire il Risorgimento italiano”. 

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