29.9.11

La mutazione genetica del Pci negli anni 80. Il punto di non ritorno

Quando si può fissare il momento in cui il Pci, che statutariamente si definiva “il partito della classe operaia e di tutti i lavoratori”, fu, nel grosso dei suoi gruppi dirigenti e dei suoi quadri attivi, pronto a uscire da sé e dalla sua storia, a tentare l’avventura di un’altra identità aclassista, di tipo valoriale? Quando ci fu il tourning point, il punto di svolta e di non ritorno?
La trasformazione del partito cominciò certamente al tempo di Berlinguer, nel triennio dell’unità nazionale, quando i comunisti meno giovani cominciarono a godere le gioie del potere e del sottopotere da cui a lungo erano stati esclusi. Ma fu soprattutto il tempo in cui in tutti i paesi e le città le sezioni pullulavano di nuovi comunisti, di estrazione borghese o piccolo borghese o di estrazione operaia.
Da una parte venivano al Pci non pochi giovani “intellettuali di massa”, insegnanti, medici, ingegneri, architetti, laureati in legge, in economia, aspiranti giornalisti, studenti, tutti affascinati dalla prospettiva che, nell’accesso del Pci all’area di governo, si aprisse lo spazio per una nuova generazione di politici pronta a scendere in campo. Liberi e disponibili questi nuovi comunisti entravano in massa nei direttivi e nelle segreterie delle sezioni, promossi in massa segretari di sezione o assessori, valorizzati nelle strutture di governo, sperimentati come dirigenti nelle organizzazioni di massa, il sindacato, le associazioni professionali della sinistra.
Questo processo di “trasformazione molecolare” si vide poco perché, in parallelo, sull’onda dell’autunno operaio del 1969 e della crescita della forza operaia e del lavoro nel movimento sindacale, nelle sezioni si notavano altre presenze nuove, di operai e lavoratori più giovani, che tentavano di esercitare nel partito il proprio ruolo di avanguardia di classe. I vecchi operai comunisti andavano in sezione per denunciare le malefatte padronali e democristiane, ma il più delle volte la linea –– docilmente - se la facevano spiegare dai dirigenti, in un rapporto fideistico con il Partito. I nuovi operai del Pci no, c’era anche tra loro l’esigenza di “protagonismo”.
Tra il primo gruppo e il secondo gruppo di nuovi comunisti si realizzò – com’era nelle cose – una dialettica, fatta insieme di conflitto e di omologazione. Più spesso fu il giovane operaio ad assumere come modello il suo coetaneo “intellettuale” e a scegliere la carriera. Si ampliavano le strutture sindacali, il Pci entrava nel governo di molti comuni, crescevano le cooperative: insomma si offriva a molti una più ampia possibilità di uscire dalla condizione operaia. Fino ad allora – fatta la tara per quelli che, dopo appropriata formazione alle Frattocchie o ad Ariccia, erano diventati funzionari del Pci, del Psi e della Cgil - il modo più diffuso per uscire dalla condizione operaia era “mettersi in proprio” e molti tra i più abili, i più intelligenti l’avevano praticato. Ora un altro modo di offriva a tanti: “andare in giro con l’agenda”. Con questa caratterizzazione i lavoratori che continuavano a faticare per tutto l’orario contrattuale indicavano il loro compagno che si sottraeva in tutto o in parte al proprio compito di un tempo, facendo il sindacalista, l’assessore, il consigliere comunale con permesso retribuito.
Mentre tutto ciò accadeva, in parallelo, nel triennio dell’unità nazionale (1976-79) cominciava, a poco a poco, uno scollamento dal partito della tradizionale base operaia e popolare, che pur senza assumere ancora i caratteri di una verticale frattura, si accentuò negli anni successivi. Se ne avvide Berlinguer che parlava di “mutazione genetica” del Psi craxista, abbandonato nella militanza dai “vecchi socialisti” di estrazione operaia, artigiana e popolare, dava spazio ai “rampanti” e agli “emergenti”, ma vedeva come anche nel suo partito un processo analogo si fosse aperto. La proclamata “diversità comunista” come la presenza di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat in un drammatico passaggio del 1980 erano tentativi di arginare la mutazione genetica del Pci.
Dopo la sua morte arrivò il punto di non ritorno. Non so indicare una data e una circostanza precisa, ma quasi dappertutto, le sezioni Pci, nel corso degli anni Ottanta, smisero di organizzare le riunioni dopocena. Prima se ne faceva praticamente una ogni sera: attivi, assemblee generali, riunioni di categoria. Spesso si andava a fare riunioni di caseggiato, nei quartieri operai o nelle frazioni mezzadrili. Dopo Berlinguer riunioni serali e notturne, se ne fecero sempre meno e perfino gli Attivi e le Assemblee degli iscritti non si fecero più dalle 21, nel dopocena, ma nei pomeriggi dalle 17. Che non vi potessero partecipare tanti lavoratori che lavoravano non era considerato importante, tanto già ne venivano pochi. L’abitudine delle appassionate discussioni notturne permaneva in isole di forte insediamento, specie a base contadina, ma anche lì era contrastata come un residuo del “vecchio”.

Piombino anni 50. Una riunione di caseggiato del Pci.
Senza un ordine preciso, ma come una reazione spontanea, diffusa, nei primi leggendari mesi della “rifondazione comunista” di Sergio Garavini, assemblee e attivi comunisti del dopo cena tornarono a guastare la digestione di alcuni. Ma l’usanza durò poco. Fino all’arrivo di Bertinotti, più o meno. 

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