14.10.11

Una canzone per il cervo (di Patricia Monaghan)

Il bosco, all'alba del solstizio, era luminoso al modo della neve: un cielo grigio perla sugli aceri statuari e le querce contorte. Il sentiero che seguivo gira di continuo e si avvolge, e nuove macchie di sottobosco apparivano ad ogni svolta. Quella mattina, raggiunsi un punto dove il sentiero voltava bruscamente a sinistra per seguire una piccola scarpata. In primavera, qui si formano delle effimere polle d'acqua, vivaci di salamandre e sonore di rane, ma nel gelo dell'inverno io non mi aspettavo altro che vento e silenzio.
Perciò, dapprima non li vidi, i tre cervi dietro i tre larici spogli, oltre la scarpata. Quando riuscii a distinguerli, tre ombre grigie in un mondo grigio, essi erano fermi, con le code bianche immote e pendenti. Mi arrestai di colpo, pensando a quant'ero fortunata ad aver incontrato l'animale che i miei antenati consideravo lo spirito stesso della natura proprio nel giorno del solstizio.
Naturalmente, non era la prima volta: incontro spesso cervi durante le mie passeggiate mattutine. Il bosco è abbastanza vicino alla strada ed alle case, e perciò noi umani non siamo proprio degli estranei per i cervi. Ma come tutti gli altri animali che vivono qui, scoiattoli, opossum, ecc., si mantengono a distanza. Di solito, un istante dopo che mi hanno vista, si allontanano silenziosamente, con le code alte in segno di allarme.
Quella mattina, i cervi si limitarono a guardarmi. A sinistra c'era un'alta e prestante femmina, a destra un maschio più vecchio e pesante, al centro uno dei nati nell'ultima primavera, con l'aria briccona dell'adolescenza. Le grandi e soffici orecchie erano diritte, gli sguardi scuri e liquidi fissi su di me. E non fuggivano.
Il desiderio mi bruciava il cuore, il desiderio di parlare ai cervi, di dire loro quanto erano belli, di ringraziarli. Volevo che il mio piccolo cuore selvaggio parlasse ai loro cuori selvaggi. Volevo celebrare la festa con loro. Tuttavia rimasi in silenzio, poiché non parlo la lingua dei cervi. Li fissavo senza dire nulla, aspettando l'inevitabile fuga. E i minuti si allungavano come le dita di luce che il sole faceva filtrare nel bosco, ed essi non fuggivano.
Fu allora, non saprei spiegarne esattamente la ragione, che cominciai a cantare. La mia voce cantò nel silenzio della foresta. Una canzone antica, in tono minore, mi uscì dalle labbra; una canzone di festa che conoscevo sin da bambina: "Guarda come sempre fiorisce la rosa, da un tenero stelo è sbocciata, un brillio fiorito fra le nevi d'inverno, mentre la notte è per metà trascorsa".
Pensavo che il suono della mia voce li avrebbe spaventati, ma volevo parlare con loro. E la musica mi sembrò il solo modo possibile. Proprio come mi aspettavo, essi cominciarono a muoversi. Ma non velocemente, e non verso l'interno della foresta. Non distanti da me.
No. Un lento passo alla volta, i cervi vennero verso di me. Quando avevo cominciato a cantare, la distanza fra noi era di circa cinquanta passi. Quando arrivai al secondo verso, avevano dimezzato la distanza. Al termine della canzone, i cervi avevano attraversato la scarpata. Nell'improvviso silenzio che era seguito alla fine del canto, le tre code si rizzarono, come per un silenzioso avvertimento. Perciò iniziai a cantare una seconda canzone. Le code si abbassarono, le orecchie si mossero leggermente in avanti. La luce dell'alba disegnava lucenti strisce color limone sulla neve, mentre i tre cervi ascoltavano una canzone dietro l'altra.
Un quarto d'ora passò, ed essi non si mossero finchè io continuai a cantare. Non furono loro a porre termine all'incontro. Il cielo era virato dal grigio perla all'azzurro, ed io avevo promesse da mantenere. Ringraziai i cervi per aver ascoltato i miei canti dell'alba. Il suono delle mie parole li scosse. Le code si alzarono, le zampe anteriori batterono, ed in un istante essi erano spariti.
Restai a fissare in silenzio l'interno della grigia foresta. Solo pochi mesi prima, osservando un ghiacciaio che conosco sin da bambina, e le cui antiche nevi si stanno rapidamente sciogliendo in rivi gelidi, mi ero sentita oppressa dalla disperazione. Siamo dunque solo capaci di prendere dalla natura, senza dare nulla in cambio? E se sì, di che utilità siamo? Perché l'universo dovrebbe continuare a provvedere a noi, figli ingrati quali siamo? Ma sul ciglio della piccola scarpata, la speranza mi battezzò come luce. Forse là c'era una ragione per esistere. Forse ciò che diamo al nostro amato pianeta azzurro è una canzone. Bellezza. Arte.
Forse il Grande Spirito è commosso e deliziato dalla nostra creatività. Al giorno d'oggi, noi pensiamo che la creatività sia patrimonio dei professionisti: quelli dalle voci splendide, e dai corpi sodi, e dalle eccitanti visioni.  Eppure, forse l'arte non sta in quei momenti congelati di perfezione, ma nel processo stesso della creazione. Forse siamo qui per dare piacere al mondo. Forse dovremmo tutti cantare di più, e danzare, e dipingere, e recitare le nostre poesie. Forse noi sciocchi e meravigliosi ordinari esseri umani possiamo dar gioia all'universo, se agiamo in questo modo.

Dal bollettino "La non violenza è in cammino" dicembre 2004. Traduzione di Maria G. Di Rienzo. 

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