22.11.11

Giorgio Manganelli su Stevenson



Robert Louis Stevenson

Il fascino di Stevenson è assurdo e moralmente impossibile, come il fascino della tragica e astuta Shérezade. Si è elogiato il suo stile nitido, ma lo stile nitido non basta a farvi trattenere il respiro o, per assurdo (a me è successo), di rallentare e frammentare la lettura per non arrivare al momento angoscioso della conclusione.
C’è di più. Sebbene racconti delle storie che fanno stare col fiato sospeso, Stevenson è moderatamente interessato a quel che di “interessante” egli sta raccontando. Con una eleganza provocatoria, da gentiluomo e da baro, nelle prime righe dell’Isola del Tesoro Stevenson ci spiega tutto quello che accadrà nel libro che si accinge a scrivere; e noi, indifesi e drogati, lo leggiamo esattamente come se non sapessimo nulla, e ci deliziamo di ansie ingiustificate, e sprechiamo palpiti e sollievi…
Poco ci interesserebbe lo stile “nitido” di Stevenson se non si accompagnasse alla sua enigmaticità. Ma occorre precisare: egli non è enigmatico verso i lettori, ma verso se stesso… Il labirinto è la sua letizia, il suo gioco, il suo rito.
Signore dei labirinti, califfo dei giochi d’aria e di vento, Stevenson possiede la qualità esasperante e definitiva del raccontare l’indifferenza. Non conosce né terrore, né orrore, né amore, sebbene, o appunto perché, sono tutti ospiti della sua mensa quotidiana.

Da Chi lo legge è perduto in “L’Europeo”, 31 ottobre 1980

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