23.11.11

Le alternative della "sicilitudine" (di Giorgio Ficara)

In occasione della trasposizione per il cinema dei I Vicerè da parte di Roberto Faenza (in occasione) su “tuttolibri” de “La Stampa” il 24-11-2007 un articolo di Giorgio Ficara, dal titolo a mio avviso incongruo L'Italia vista dalla Sicilia, ragiona di “sicilitudine”. Con molta pertinenza mi pare. (S.L.L.)

Ma questi siciliani, raccontano tutti la stessa storia? E la sicilitudine, questa mitica malattia morale di cui ha parlato Sciascia (a proposito di Brancati) colpisce proprio tutti i siciliani, anche quelli più refrattari al virus, cioè al «mito» stesso dell'Isola? In effetti, un tratto comune, da Verga a De Roberto a Brancati a Tomasi a Sciascia, è un certo dispetto, se non rancore, verso l'immobilismo irrazionalistico dei siciliani e un'opposta infatuazione per l'attivismo razionale dei nordici. Come se «troppa» Sicilia, con le sue canicole e i suoi assopimenti e la sua dolcissima uva insòlia, fosse insostenibile per i siciliani stessi, che dunque spesso fuggono via, a Parigi, a Londra, a Torino, dove i «limiti» del luogo coincidono con l'eccellenza delle soluzioni produttive.

Una sconfinata amarezza
In un «notturno» magistrale e straziante del Mastro don Gesualdo, Verga ci parla dell'«amarezza» del paesaggio siciliano: «Uno struggimento, un'amarezza sconfinata venivano dall'ampia distesa dell'Alìa, dirimpetto, al di là delle case dei Barresi, dalle vigne e gli oliveti di Giolio, che si indovinavano confusamente, oltre la via del Rosario ancora formicolante di lumi, dal cielo profondo, ricamato di stelle...». Su questa stessa nota si modulano le successive arie siciliane di De Roberto e Tomasi e di tutti gli altri, come se «struggimento» e «amarezza» fossero i termini esatti con cui riferirsi non solo al cielo ma alla mentalità dei siciliani (così astratta, peraltro, così poco psicologica). Non uno dei grandi personaggi siciliani, da quelli di Verga a quelli di Sciascia, è immune dalla sconfinata amarezza che sta, prima di tutto, nelle cose intorno, nella vastità stessa dell'arido suolo isolano, nel sole a picco sui sassi o sulle macchie di sugheri e tamerici. Quando, nel Gattopardo, a mezzodì, i due cacciatori don Fabrizio e don Ciccio vi giungono, la cima del monte rivela «l'aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi citta' barocche e aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l'aspetto di un'aridità ondulante all'infinito in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione». Il luogo stesso, in cui i due amici riposano, bevendo vino dalle borracce di legno e mangiando «soavissimi muffoletti», è dunque «sconfortato» e «irrazionale». Un elemento di sconnessione e di demenza agita e blocca le onde di quel mare di pietra.

Fare è un peccato imperdonabile
La grandezza dei siciliani è davvero in questo a tu per tu con la creazione. Anche la storia, e lo strozzarsi della storia nell'ingiustizia, - argomento dei Vicerè di Federico De Roberto - ha a che fare, in Sicilia, con una specie di continuata istanza metafisica e con un'arcana fede: che la creazione non abbia senso e nessuna opera umana, nessuna intelligenza, nessuna diligenza, nessun disegno, nessuna umana cura possa restituire mai ciò che, forse per pura distrazione, originariamente non è stato previsto. L'atroce cupidigia degli Uzeda, nei Vicerè, la stupefacente follia imprenditoriale di Mastro don Gesualdo, il disincanto del principe di Salina, nel Gattopardo, non sono, in effetti, che reazioni, più o meno paradossali, allo stesso male. E quando illustra a Chevalley, nel celebre dialogo, l'«irredimibile» paesaggio insulare - mai distensivo, «come dovrebbe essere un paese fatto per esseri razionali» - il principe Salina allude precisamente a quel male: «Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare». Di fronte al non senso della creazione, e alla sua tangibile evidenza nelle linee irrazionali del paesaggio siciliano, fare o mutare alcunché, è stupido. D'altra parte, è proprio da questo cerchio vizioso - nichilismo, irrazionalismo, immobilismo - che il siciliano, contravvenendo alla sua stessa «intelligenza», vuole uscire: il Nord amatissimo è una specie di retroguardia dello spirito insulare, un campanello d'allarme, una scossa nel delirio d'immobilità.
Le lezioni di Letteratura inglese, dettate al giovane Francesco Orlando, sono il vero capolavoro di Tomasi, benché a tutt'oggi quasi ignorato: l'autore si muove tra Elisabettiani e puritani, tra Wordsworth e Jane Austen, come nelle stanze di casa, tra i più cari amici, con la stessa suprema gentilezza, con la stessa arguzia e lo stesso genio dell'ospitalità. E ancora: nelle lettere scritte dall'Inghilterra (raccolte ora in Viaggio in Europa, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro), «l'incredibile serenità» delle campagne inglesi, i «prati con armenti», i fiumi pigri e «ricolmi», le colline «fastose» come in una pastorale di Sydney sono precisamente all'opposto delle sconfortate e sghembe macchie di carrubi di Donnafugata.

Sempre esitare tra il no e il sì
Ma la mera esistenza di un altro paesaggio, sereno e razionale, non è sufficiente, anche per un siciliano, a postulare addirittura la possibilità d'un altro universo, su cui il non senso del primo si spunti? La sicilitudine, dopotutto, non è un'alta e sempiterna esitazione tra il no e il sì?

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