4.12.11

Dopo piazza Fontana. Le ragioni di un decennio (di Roberto Monicchia)

Dicembre 1969. I funerali di Giuseppe Pinelli
Lo hanno confermato molti discorsi e articoli dedicati al quarantennale di Piazza Fontana: la storia degli anni ‘70 viene quasi unanimemente appiattita sulla cupa definizione degli “anni di piombo”: il terrorismo, quello in particolare delle BR, sarebbe il naturale esito di una ribellione insensata, figlia del “marxismo” e dei cattivi maestri, responsabile di (quasi) tutti i mali della società attuale. E’ un pezzo importante della campagna ideologica volta a fare terra bruciata dell’intera parabola della “prima repubblica”, dalle sue origini (resistenza/costituzione) alla sua fine. Nel caso specifico degli anni ’70, questa rimozione è in qualche modo favorita dalla stessa natura dei movimenti di quegli anni. La brusca sconfitta di quella che era stata vissuta come militanza totale ha generato nei protagonisti prima un lungo silenzio, poi un profluvio di memorie caratterizzate da un soggettivismo irriducibile, in assenza di un quadro storico minimamente fondato su un solido corredo archivistico.
Consapevole di muoversi nell’intricato mix di revisionismo volgare, autismo della memoria e afasia della storia Giovanni De Luna prova con il suo Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, Milano 2009), a “togliere il velo” agli anni ’70, mantenendosi in equilibrio lungo il sottile crinale che corre tra la testimonianza personale e l’indagine scientifica.
Il testo si sviluppa discutendo alcuni “caratteri originari” del profilo della generazione del ‘68: la centralità operaia, l’antifascismo, la violenza, la militanza. Da questa designazione tematica deriva anche un canone cronologico, con una netta cesura fra i primi anni ’70 (dal ’68-’69 al 1975), quelli della “presa di parola” e del dilagare del conflitto in tutta la società, e i secondi (1975-79), segnati dal repentino riflusso degli stessi in parallelo con la stagione del “partito armato”. Come cartina di tornasole di una pratica di militanza e di movimento, si sceglie la più “originale” delle esperienze politiche del tempo, Lotta Continua.
Tutti i temi cui si accennava in precedenza sono già presenti nella tradizione del movimento operaio novecentesco, ma è frutto di una distorsione ideologica l’accostamento degli anni ’70 alle caratteristiche del movimento comunista. Pur per certi tratti altrettanto totalizzante di quella comunista classica, la militanza del ’68 non si risolve affatto nel annullamento dell’individuo, sacrificato a un progetto inscritto nell’ineluttabile movimento storico. Si configura invece come protagonismo individuale, politicizzazione del quotidiano, esaltazione della pratica, perseguimento di un’idea di rivoluzione non come fine ma come ripetizione indefinita del conflitto (lotta continua appunto): lo “stato di desiderio” conta più del suo appagamento. In questo senso il percorso è l’opposto di quello di Paul Nizan, che dall’insofferenza generazionale approdava alla disciplina di partito. Quando i “gruppi” della nuova sinistra cominciano ad adottare le forme organizzative terzinternazionaliste, mostrano solo l’inizio della crisi di questo modello di militanza.
Questo rapporto con la politica conferisce un’ottica diversa anche agli altri temi, a cominciare dalla centralità operaia, che più delle teorizzazioni vecchie e nuove si nutre dell’incontro diretto tra il movimento degli studenti e le inedite forme di protagonismo operaio. La condizione dell’operaio-massa diviene paradigmatica della sorte degli oppressi, la sua ribellione all’organizzazione del lavoro costituisce il punto di partenza della “generalizzazione” delle lotte sociali. Da qui vengono le “campagne di massa” di LC, la scoperta del sottoproletariato meridionale, la lotta per la casa.
E’ alla centralità operaia come conflittualità permanente che si ricollega l’antifascismo militante, proiezioni di una visione della resistenza come fenomeno essenzialmente proletario. Ed è ancora dentro questa prospettiva che la tematica della violenza acquista un peso sempre maggiore. Dapprima come scoperta della violenza del potere, nel duplice aspetto dell’autoritarismo delle istituzioni sociali e dell’azione dei corpi separati, fino a Piazza Fontana e alle vittime delle manifestazioni. Poi con il lungo dibattito sulla violenza “difensiva” a supporto dell’agibilità dei movimenti, che si sposta infine sulla necessità della violenza offensiva come strumento della rivoluzione: a questo punto è già in atto la sfida delle BR. Anche qui è sintomatico l’atteggiamento di LC: la campagna contro Calabresi è il culmine dell’ipotesi di un uso “di massa” della violenza, cui segue un ripiegamento, mentre la lotta armata si separa sempre più dai movimenti, che a loro volta cominciano a declinare: anche le statistiche confermano il rapporto di inversa proporzionalità tra violenza politica e conflitto sociale.
La lotta armata, la crisi del centro sinistra, la scelta del compromesso storico da parte del PCI, sono altrettanti punti di svolta: la generazione militante si divide tra una minoranza che sceglie il partito armato, una fascia di opinione che si affida alla delega elettorale alla sinistra storica (che nel 1975-76 raggiunge il massimo del consensi) e una generalizzata e repentina crisi della militanza che sarà catalogata alla voce riflusso.
Il congresso di Rimini che si conclude con lo scioglimento di LC rappresenta ancora una volta un episodio esemplare. Se la rivoluzione come conflitto permanente era alla base della scelta militante, l’esaurimento della spinta sociale, l’emersione di istanze e pratiche non riconducibili alla centralità operaia, la sconfitta del tentativo di “alternativa” alla deriva del partito armato, portano con una certa coerenza alla constatazione dell’impossibilità di proseguire il cammino in forma organizzata.
In parallelo con la sconfitta politica, la fine della militanza incrocia anche una profonda trasformazione oggettiva. Come se si chiudesse la parentesi “politica” dei ’70, riemergono tendenze sociali già affacciatesi negli anni del boom, quali la corsa ai consumi, l’individualismo, la fine della “centralità operaia” e l’emersione del ceto medio, non più equiparabile ad una sorta di massa gelatinosa.
La crisi della militanza diventa rapidamente dissoluzione, e con essa tramonta anche la lunga parabola del militante rivoluzionario del Novecento, che Hobsbawm aveva descritto come il passaggio da “ribelle” a “rivoluzionario”.
Muovendo da spunti non sistematici, il discorso di De Luna si allarga fino a far intravedere, dietro la traiettoria del ’68 quella più ampia del Novecento: la tumultuosa fase conflittuale degli anni ’70 segna l’esaurimento della categoria del militante del movimento operaio del XX secolo, della sua pretesa-volontà di “essere al passo con la storia”, favorendo con l’azione collettiva l’affermazione di una prospettiva comunque iscritto nelle cose. Il militante del ’68 non diviene “funzionario”, semmai “cittadino”, capace di scrupoloso rispetto delle regole del vivere civile, non indifferente alla realtà storica ma privo di qualsiasi prospettiva-speranza di intervenirvi.
Il discorso è condotto con ineccepibile rigore, senza concessioni retoriche o nostalgiche. Proprio per questo De Luna sa comporre un quadro ricco e problematico degli anni ’70, sottratti al riduttivismo di moda e riportati alle proprie “ragioni”, che pur usurate dal tempo e segnate dalla sconfitta, continuano a indicare la possibilità di riprendere il cammino della liberazione umana.

da “micropolis”, gennaio 2010 

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