23.12.11

“Sono uomo cioè surrealista”. In morte di Artaud (di Julio Cortázar)

Antonin Artaud
Su “il manifesto” del 12 marzo 2003, fu pubblicato uno scritto di Julio Cortàzar In morte di Artaud, che contiene oltre che la memoria di una figura straordinaria della letteratura del Novecento, come Antonin Artaud, una sorta di dichiarazione di fede surrealista. A me pare una pagina da leggere e rileggere, meditare e rimeditare. (S.L.L.)
Julio Cortàzar
Con Antonin Artaud si è spenta in Francia una parola scapestrata, che solo in certa misura apparteneva al versante dei vivi e per il resto non faceva che invocare e suggerire, con un linguaggio inattingibile, una realtà intravista nelle insonnie di Rodez.
Come sempre accade tra noialtri, veniamo a sapere di questa morte da venticinque striminzite righe di una «lettera dalla Francia» che il signor Juan Saavedra invia puntualmente ogni mese [alla rivista Cabalgata, nota dell'autore].
Vero è che Artaud non è mai abbastanza né attentamente letto, dal momento che il suo apporto definitivo coincide con il surrealismo inteso nel più alto e arduo livello di autenticità: un surrealismo che non è letterario, bensì anti ed extraletterario; né d'altra parte si può pretendere che tutti rivedano le proprie idee circa la letteratura, la funzione dello scrittore, e così via. E tuttavia ripugna avvertire la violenta pressione di fonte estetica e accademica, tutta tesa a incorporare nel surrealismo un ulteriore capitolo della storia della letteratura. Gli stessi professorini desistono sconfitti, tornano a testa bassa al «volume di poemi» (tutt'altra cosa dai poemi in volume), all'Arcano `17, al manifesto iterativo. Occorre dunque ripeterlo: il perché del surrealismo eccede ogni letteratura, ogni arte, ogni metodo predefinito e ogni prodotto che ne derivi. Surrealismo è cosmovisione, non già scuola o «ismo»; è intraprendere la conquista della realtà - della realtà in carne e ossa anziché quella di cartapesta, e per sempre fossilizzata; una riconquista del malamente conquistato (quel che si era conquistato solo a mezzo: attraverso la parcellizzazione di una scienza, una ragione ragionante, un'estetica, una morale, una teleologia), e non già il mero proseguimento, in antitesi dialettica, del vecchio ordine presuntamente progressivo.
Immune da qualsiasi tentativo di addomesticarlo, in virtù di una condizione che fino all'ultimo lo sostenne in un costante atteggiamento di purezza, Antonin Artaud è quell'uomo ai cui occhi il surrealismo incarna la condizione e la condotta proprie dell'animale umano. Per questa ragione gli era lecito proclamarsi surrealista con la stessa essenzialità con cui chiunque si riconosce in quanto uomo: una modalità inesorabilmente immediata e primaria dell'esistere, non certo una contaminazione culturale come tutti gli «ismi».
È ora che questo concetto risulti più palese, e mi rivolgo soprattutto ai giovani presuntamente surrealisti, che tendono al tic, allo stereotipo, che affermano «questo è surrealista» con la stessa leggerezza di chi mostri a un bambino uno gnu o un rinoceronte, che disegnano oggetti surrealisti partendo da un'idea realistica deformata, da meri teratologi; è ora di capire che al surrealismo più autentico non corrisponde in realtà alcun cliché, alcun tratto etichettabile in quanto surrealista (orologi flosci, gioconde baffute, premonitori ritratti guerci, mostre e antologie). Semplicemente, il surrealismo più profondo pone l'accento più sull'individuo che sui suoi prodotti, essendo ormai assodato che ogni prodotto ha tendenza a scaturire da insufficienze, e supplisce e consola con la tristezza del succedaneo. Vivere conta più dello scrivere, a meno che lo scrivere non sia già di per sé - cosa molto rara, invero - un modo di vivere. Slancio all'azione, il surrealismo propone di intendere la realtà quale poetica e come legittimo il suo vissuto: è per questo che in ultima istanza è impossibile ravvisare il sussistere di una differenza essenziale tra un poema di Desnos (modo verbale della realtà) e un evento poetico - un dato crimine, un dato knock out, una data donna - (modi fattuali della stessa realtà).
«Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle», afferma Antonin Artaud in una delle sue lettere a Henri Parisot, scritta dall'asilo per alienati di Rodez. «Quando recito una poesia non è per essere applaudito, ma per sentire corpi d'uomini e di donne, dico corpi, tremare e volgersi all'unisono con il mio, volgersi come ci si volge dall'ottusa contemplazione del buddha seduto - con cosce ben sistemate e il sesso gratuito - all'anima, cioè alla materializzazione corporea e reale di un essere integrale di poesia. Voglio che le poesie di François Villon, Charles Baudelaire, Edgar Poe e Gérard de Nerval diventino vere, e che la vita esca fuori dai libri, dalle riviste, dai teatri o dalle messe che la trattengono e la crocifiggono per captarla, e passi sul piano di quest'interna magia di corpi...» [Lettera del 6 ottobre 1945, n.d.r.].
Chi avrebbe potuto dirlo meglio di lui, Antonin Artaud, fiondato nella più esemplare vita surrealista dei nostri tempi? Minacciato da incalcolabili malefici, proprietario di un finto bastone magico con cui cercò un giorno di spingere alla rivolta gli irlandesi di Dublino, lui che squarciava l'aria di Parigi con il suo coltello contro i sortilegi e i suoi esorcismi, fiabesco viaggiatore al paese dei Tarahumara: quest'uomo prematuramente pagò il prezzo di chi tira diritto per la sua strada. Non intendo dire che fosse perseguitato, né mi dedicherò a una lamentazione sulle sorti riservate a ogni precursore, e via dicendo. Credo siano state altre le forze che trattennero Artaud all'orlo stesso del grande salto; credo che queste forze abitassero in lui come in ciascun uomo che conservi ancora il senso di realtà malgrado il desiderio di iperrealizzarsi; sospetto che la sua follia - sì, calma professori, era matto - sia la testimonianza della lotta tra l'homo sapiens millenario (eh, Sören Kierkegaard?) e quell'altro uomo che balbetta nel profondo, si aggrappa dal basso con unghie notturne, si inerpica e si dimena, cercando di coesistere e di collimare a buon diritto fino alla fusione totale. Artaud incarnò questa amara lotta, questo sfracello di metà secolo, questo eterno andare e venire dal Je a l'Autre che Rimbaud, profeta maggiore e non certo nel senso preteso dal sinistro Claudel, proclamò nel suo giorno vertiginoso.
Ora è morto, e della battaglia non restano che brandelli di cose e un'aria afosa priva di luce. Le orribili lettere scritte a Henri Parisot dall'asilo di Rodez sono un testamento che alcuni di noi non dimenticheranno mai più.

[Lo scritto di Julio Cortázar, Muerte de Antonin Artaud, apparve nel 1948 sulla rivista «Sur», ed è ora raccolto nel secondo tomo della sua Obra crítica, a cura di Jaime Alazraki, Madrid 1994, pp. 151-155].

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