30.1.12

Il mito di Fedra: Ippolito, l'eroe verginale, oltraggiato da un empio amore.


Siracusa, Teatro greco, maggio 2010.
Una scena dalla "Fedra "
o "Ippolito che porta la corona"
Il testo che segue da “La talpa libri”, inserto de “il manifesto” del 1° giugno 1990, è opera di Alfonso Maria di Nola ed è parte della recensione a un libro sulla Fedra euripidea di Nadia Fusini (La luminosa. Genealogia di Fedra). Nel brano scelto, l’antropologo Di Nola sintetizza la propria lettura del dramma euripideo e interpreta in una luce storica l’antifemminismo dell’antico tragediografo, come prodotto dell’antitesi radicale tra due concezioni della sessualità entrambi presenti nella Grecia classica e identificate in Afrodite e Artemide. (S.L.L.)
Siracusa, Teatro greco, maggio 2010.
Una scena dalla "Fedra " 
o "Ippolito portatore di corona"
Il significato primario del nome di Fedra, dipendente da una costellazione linguistica legata alla luce, allo splendore, al manifestarsi e forse alla parola (una serie di significati che quasi certamente erano assenti nella percezione che del nome avevano i Greci di età euripidea) origina un sottile, intelligente esercizio su quella genealogia delle «figlie del sole» di kerényiana memoria, cui l'economia interna di questo lavoro è dedicata.
Il dramma dell'uccisione dell'eroe da parte del toro (altra figura carica di significati segreti) si trasforma in una metafora culturale e universale dell'esplodere distruttivo della sessualità, quella di Ippolito, repressa e negata. Questo impianto interpretativo molto ricco e partecipato, con una attenzione, mai declinante, anche alla corrispondenza fra ritmi del verso e situazioni, non esclude un altro tipo di lettura, quello proprio dello storico che rifiuta, in una sua diversa legittimità, il compiacimento per la ricostruzione irrazionalistica.
In effetti questo scontroso personaggio che fu Euripide, processato duramente per empietà e legato ad una consuetudine omosessuale con un efebo, ha riflesso nell'"Ippolito incoronato" l'arcaica conflittualità fra sesso fecondo e riproduttore e sesso negato che si proietta nelle figure divine, quella di Afrodite, signora della forza universale di eros, e quello di Artemide, la sigillata divinità dei cacciatori che respinge ogni segno carnale, nella sua castità integra.
Artemide, che ebbe un suo celebre tempio nel luogo stesso del dramma di Ippolito, a Trezene nell'Argolide, dichiara esplicitamente Afrodite la dea più odiata da quanti hanno cara la vita verginale. In una sintesi di matrice antropologica, necessariamente rapida, il conflitto si rinnova nel concreto della trama tragica fra Fedra e Ippolito. Ippolito si presenta come membro di gruppi che, dediti alla caccia e alla prova atletica, sono distanti da ogni esperienza sessuale, anche da quella efebica, gli stessi gruppi retti dalla norma di castità, che appaiono in molti ambiti delle culture indoeuropei. E' iniziato all'orfismo; «ha in orrore l'idea di un letto e quanto può rifiuta e le donne e le nozze». «Io sono puro e il mio corpo è intatto» grida nel difendersi contro «la sete incestuosa di Fedra», «la mia anima è pura come quella di una vergine, non toccato ed ignaro», in un suo odio contro la notturna libidine proiettata in Afrodite («io non amo la dea che si mostra la notte»).
Di qui il discusso antifemminismo di Euripide, che viene trasferito negli atteggiamenti di Ippolito contro il sesso temuto. La celebre invettiva misoginica giunge ad esprimere la nostalgia di uno stato mitico non ancora bisessuato: «O Zeus, come mai ha insediato nella luce del sole le donne, questa ambigua dannazione per l'uomo? Se volevi, sai, propagare la stirpe mortale, non eri costretto a ricorrere alle donne per questo, ma bisognava che gli uomini depositassero nei tuoi templi o dell'oro o del ferro o una certa quantità di bronzo, e in cambio potessero comprarsi una semenza di figli...e abitare così in case finalmente libere senza femmine».
L'acme narrativo ingloba qui, come episodio scatenante del conflitto sessuale, la passione incestuosa di Fedra, nella quale la femminilità già radicalmente respinta da Ippolito, assume tutti i caratteri di un catastrofico oltraggio contro la norma, è la «proposta obbrobriosa», la «passione disonesta», «l'empio amore» del testo euripideo, già qualificato da Platone come vergogna massima, consentita peraltro, soltanto agli dei.

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