1.2.12

Dioniso, Ampelo e il dono dell'ebbrezza (di Roberto Calasso)

Il primo amore di Dioniso fu un ragazzo. Si chiamava Ampelo. Giocava con il giovane dio e i Satiri sulle rive del Pattolo, in Lidia. Dioniso osservava i suoi capelli lunghi sul collo, la luce che emanava dal corpo mentre usciva dall'acqua. Era geloso, quando lo Vedeva lottare con un Satiro, e i loro piedi si intrecciavano. Allora volle essere il solo a condividere i giochi di Ampelo. Furono due «atleti erotici ». Si rovesciavano per terra, e Dioniso si deliziava quando Ampelo lo abbatteva e montava il suo ventre nudo. Poi si toglievano polvere e sudore dalla pelle, nel fiume. Inventavano nuove gare. Ampelo vinceva sempre. Si incoronò la testa con un intreccio di serpi, come vedeva fare l'amico. E lo imitava anche quando indossava un chitone maculato. Imparava a trattare con familiarità orsi, leoni e tigri. Dioniso lo incoraggiava, ma una volta lo mise in guardia: non devi temere nessuna delle belve, guardati soltanto dalle corna del toro spietato.
Dioniso era solo, un giorno, quando vide una scena che gli sembrò un presagio. Un drago cornuto apparve fra le rocce. Sul dorso portava un capriolo. Lo rovesciò su un altare di pietra e affondò un corno nel piccolo corpo inerme. Sulla pietra rimase una pozza di sangue. Dioniso osservava e soffriva, ma alla sofferenza si mescolava un invincibile riso, come se il suo cuore fosse diviso in due. Poi ritrovò Ampelo e continuarono a vagare, sempre in caccia. Ampelo si divertiva a suonare uno zufolo di canne, e suonava male. Ma Dioniso non si stancava di lodarlo, perché intanto lo guardava. Talvolta, Ampelo ricordava l'avvertimento di Dioniso riguardo al toro, e sempre meno lo capiva. Conosceva tutte le belve, ormai, tutte gli erano amiche: perché mai il toro doveva sfuggirgli? E un giorno, mentre era solo, incontrò un toro fra le rocce. Era assetato, e gli penzolava la lingua. Il toro bevve, poi fissò il ragazzo, poi ruttò, e una bava gli fiottò dalla bocca. Ampelo provò ad accarezzargli le corna. Si fece una frusta di giunco e una sorta di briglia. Poggiò sulla groppa del toro una pelle maculata e lo montò. Per qualche attimo sentì un'ebbrezza che nessuna belva gli aveva mai dato. Ma Selene, gelosa, lo vedeva dall'alto e gli mandò un tafano. Il toro, innervosito, cominciò a galoppare, fuggendo quel pungolo odioso. Ormai Ampelo non controllava più la bestia. Un'ultima scossa lo precipitò a terra. Si udì il suono secco del suo collo che si spezzava. Ora il toro lo trascinava col corno, che affondava sempre più nella carne.
Dioniso ritrovò Ampelo insanguinato nella polvere, ma ancora bello. I Sileni, in circolo, cominciarono il lamento. Ma Dioniso non poteva unirsi a loro. La sua natura non gli consentiva le lagrime. Pensava che non avrebbe potuto seguire Ampelo nell'Ade, perché era immortale: si riprometteva di uccidere con il suo tirso l'intera stirpe dei tori. Eros, che aveva preso ['aspetto di un irsuto Sileno, gli si avvicinò per consolarlo, gli disse che il pungolo di un amore poteva essere guarito soltanto dal pungolo di un altro amore. Perciò guardasse altrove. Quando un fiore è reciso, il giardiniere ne pianta un altro. Eppure Dioniso ora piangeva, per Ampelo. Era il segno di un evento che avrebbe cambiato la sua natura, e la natura del mondo.
A quel punto le Ore si affrettarono verso la casa di Helios. Si preannunciava una scena nuova sulla ruota celeste. Occorreva consultare le tavole di Armonia, dove la mano primordiale di Fanes aveva inciso, nella loro sequenza, gli eventi del mondo. Helios le indicò, affisse a una parete della sua casa. Le Ore guardavano la quarta tavola: c'erano il Leone e la Vergine, e Ganimede con una coppa in mano. Lessero l'immagine: Ampelo sarebbe diventato la vite. Colui che aveva portato il pianto al dio che non piange avrebbe anche portato delizia al mondo. Allora Dioniso si riebbe. Quando l'uva nata dal corpo di Ampelo fu matura, staccò i primi grappoli, li spremette con dolcezza fra le mani, con un gesto che sembrava conoscere da sempre, e si guardò le dita macchiate di rosso. Poi le leccò. Pensava: Ampelo, la tua fine prova lo splendore del tuo corpo. Anche morto, non hai perso il tuo colore rosato. Nessun altro dio; non certo Atena col suo sobrio ulivo, e neppure Demetra col suo pane corroborante, avevano in loro potere qualcosa che si avvicinasse a quel liquore. Era appunto ciò che mancava alla vita, che la vita aspettava: l'ebbrezza.

Fiorente di giovinezza, nel rombo del suo corteo, Dioniso irruppe a Nasso dinanzi ad Arianna abbandonata.

Da Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, 1988

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