14.2.12

Ingrao e Tronti sulla lotta di classe. In che cosa abbiamo sbagliato?

Per la serie io ricordo - memorie d' autore il “Corriere della Sera” del 21 marzo 2011 pubblicava una conversazione con Pietro Ingrao, a cura di Paolo Di Stefano. Il 31 marzo sul “manifesto” Mario Tronti, in occasione del compleanno di Ingrao gli indirizzò una lettera aperta che riprendeva alcuni temi dell’intervista al “Corriere”. Dall’uno e dall’altro testo riprendo ampi stralci. (S.L.L.)
“La lotta di classe, per cacciare i padroni, è stata il centro della mia vita”
Intervista a Pietro Ingrao di Paolo Di Stefano
La luna. È curioso che in questa serata romana piovosa e fredda si parta dalla luna e si arrivi alla luna. Era quella che il bambino testardo Pietro pretese in regalo dai suoi genitori il giorno in cui gli chiesero di fare la pipì nel vasino: «In cambio voglio la luna!». Qui nel salone di casa Ingrao, le finestre sono abbassate e si sente l' acqua scrosciare. E la luna chissà dove si nasconde.
Ma dalle parole scolpite di Pietro Ingrao, del poeta prima che del politico comunista che ha attraversato decenni di storia nazionale, la sfera lontana sembra avvicinarsi e accendersi luminosa, quando ricordano il suo paese, Lenola, situato tra i Monti Aurunci e la piana di Fondi: «Provo una sensazione fisica molto precisa, pensando a certe serate dell'infanzia. Il mio era un paese contadino, con ceppi patronali e gruppi di artigianato. Fu mio nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, a costruire quella casa a metà strada tra il paese e il colle. Lenola era allora sul confine tra il Regno dei Borbone e lo Stato pontificio. Dalla casa che saliva verso il colle del santuario c'erano balconi che si affacciavano sull'orizzonte e io provavo un'emozione molto forte quando riuscivo a cogliere, stavo per dire acciuffare, il sorgere della luna dietro le spalle montuose. Specie nelle notti d'estate, guardavo la corona di montagne, con cieli gremitissimi di stelle: quello spettacolo che inondava il cielo del suo chiarore è diventato per me il simbolo di un oltre che alludeva ad altri mondi».
Recita «L' infinito», Ingrao: «Nella poesia italiana Leopardi mi sembra l'evento più alto. Ho studiato Giurisprudenza per un ordine prestabilito della famiglia, poi Lettere, amavo soprattutto la letteratura, e in modo caldo, appassionato, la poesia. Le due pagine di invenzione artistica che apprezzo di più sono di Leopardi: "L' infinito" e "Le ricordanze". La cima sono quei versi di grande splendore e scuotimento».
Seduto sul suo divano chiaro, il viso immobile, rari sorrisi, aiutando la parola con il lento movimento di una mano, Ingrao non abbandona la ben nota espressione severa, come eternamente imbronciata, che fu del politico e poi del Presidente della Camera. Anche quando ricorda i suoi genitori pesando ogni parola: «Ho avuto relazioni familiari molto intense. Non solo con mio padre, anche di più con mia madre, che era una donna tenera e dolce, legata a quelle terre. La famiglia era anche il vincolo alla casa e al mio paese: mi piacevano molto quei piccoli aggregati, erano lì le mie passioni, i sentimenti, gli affetti, gli scatti di evasione legati al paesaggio, agli amici, alle ragazze».
Nel suo antifascismo, che arriva con la Guerra di Spagna, c'è l' educazione familiare, c'è la poesia, ci sono i coetanei del tempo e, paradossalmente, ci sono anche i Littoriali della cultura e dell' arte: «Partecipai con una poesia francamente brutta sulla bonifica delle Paludi pontine, scritta con sincerità apologetica, e Dio me lo perdoni. Sembrerà curiosa questa combinazione, ma ai Littoriali di Firenze incontrai l'antifascismo. Non racconto frottole! Gli amici con cui avrei fatto la cospirazione e la battaglia antifascista erano tutti lì. Fu una svolta. Mi precipitai al caffè delle Giubbe Rosse, dove conobbi, tra gli altri, Montale e Bertolucci».
Antifascismo è anche l'incontro con il cinema e con il Centro sperimentale di cinematografia: «Conobbi Gianni Puccini, che studiava il cinema americano. Guardi quello lì...». Indica il burattino di Charlie Chaplin appeso a una parete: «Ci ha sconvolto e trascinato: l'immagine della macchina e di come l' operaio sta dentro la macchina l' ha rappresentata Chaplin quando si incastra negli ingranaggi tipici del capitalismo che dilaga nel mondo. La passione per il cinema si è mescolata a quella per la poesia. Con l' incontro tra generazioni a Firenze è cominciata la cospirazione».
Il 17 luglio 1936 è un giorno chiave: esplode la rivolta franchista. «Antonio Amendola cominciò a farmi ragionare sulla lotta antifascista, non tornai più al Centro sperimentale e il mio amore per il cinema restò in ombra. Da allora, la lotta di classe diventò il punto centrale nella mia vita, il primo dovere, la prima speranza: la lotta per cacciare i padroni. Un dovere che condividemmo, oltre che con Amendola, con Bruno Sanguinetti, Paolo Bufalini, Aldo Natoli, Antonello Trombadori e altri. Quel 17 luglio fu il punto di rottura. Dissi no, non ci sto».
La nuova epoca si porta dietro anche una serie di errori che Ingrao oggi, all' alba dei suoi 96 anni, non esita a riconoscere. Il più grave, da direttore dell' Unità: «Nel '56 scrissi un editoriale contro la rivolta ungherese. Poco dopo capii che avevo sbagliato e che invece bisognava lavorare contro gli errori dei sovietici: tutti i miei rapporti con i sovietici hanno vissuto momenti di ambiguità».
Il giorno dell'invasione di Budapest, il 4 novembre, letta la notizia, Ingrao non ha voglia di parlarne neanche con sua moglie Laura, cammina per ore da solo per le vie di Roma sotto un cielo nuvoloso, il suo girovagare finisce a casa di Togliatti, al quale dice il suo sgomento, sentendosi rispondere: «Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più».
La repressione della primavera di Praga ha un effetto diverso, ma è passato più di un decennio: «Ero a Lenola, mi avvisarono in serata, piantai la cena e andai al giornale: Longo era in Unione Sovietica e senza sentire i dirigenti uscimmo la mattina dopo con la nostra condanna».
Altri errori: la radiazione dal Pci del gruppo del manifesto («Bisognava affrontare la differenza, guardarla in faccia») e la più recente adesione al partito di Bertinotti: «Non è stata una scelta felice, ritengo sia necessario costruire un soggetto collettivo e Rifondazione non ha trovato la via per questo approdo». Ne ha vissuta di storia, Ingrao: «Tra un po' faccio i cento, speriamo, insomma...». Le corna che mostra con una mano sono inevitabili.
Tanta storia e tanti suoi protagonisti. Mao: «A Mosca, lo stavamo ad ascoltare a bocca aperta, con entusiasmo, era il vincitore della rivoluzione asiatica». Togliatti: «Intervenne qualche volta nel lavoro al giornale, anche sbagliando. In tutta la vicenda Vittorini, mostrò di non capire». Berlinguer: «Ne ho un ricordo affettuoso, cordiale, però appartiene a un' altra generazione». I dissensi con Pajetta: «Era molto vivace, ma anche fazioso e cattivo. Quando nella segreteria prendevo la parola, entrava in agitazione, si alzava e ritornava per potere materialmente scocciarmi. Bisognava avere l'abilità di lasciarlo sfogare».
Ha inciso la dura obbedienza imposta dal partito nella vita privata? «Beh, sì, come no. C'era una specie di conformismo. Togliatti presto ha rotto con sua moglie e ha trovato un amore con Nilde Iotti, che era una giovinetta. Beh, questa cosa qui il partito l'ha digerita molto male, perché bisognava rispettare le regole del buon costume. Anche alla Iotti la vicenda costò molte noie».
La vita sentimentale di Ingrao ebbe la sua svolta durante la guerra, quando conobbe Laura Lombardo Radice, figlia dell'antifascista Giuseppe e sorella di Lucio…: «… è successo che in uno di questi incontri a Massenzio, in modo un po' sgarbato e sbagliato ho tentato di darle un bacio, e mi son preso un ceffone solenne. Come a dire: siamo qui per lavorare, queste cose levatele dalla mente e non rompere le scatole». Quella prima reazione non avrebbe impedito a Laura e a Pietro di avviare una lunga vita insieme, di sposarsi e di avere cinque figli.
Laura morì nel 2003. «Abbiamo avuto una vita di grande comunicazione, anche se, senza dire bugie, io non è che fossi uno stinco di santo. Provai un dolore assai aspro quando quella sua luminosità umana mi abbandonò».
Forse la stessa la luminosità della luna che vedeva, molto tempo prima, dal balcone di casa.

"Corriere della Sera", 21 marzo 2012

I potenti, i ricchi, i possessori delle nostre vite, non si sono mai sentiti al sicuro come in questo tempo.
Dove abbiamo sbagliato?
di Mario Tronti
Carissimo Pietro,
è lontano, lontanissimo, quel giorno del 1936, quando, davanti al pericolo reale della dittatura franchista, decidesti il corso della tua vita con quel «no, non ci sto». Il centro sperimentale e la tua passione per il cinema vennero messi da parte e ci fu la scoperta della tua esistenza, la volontà di partecipare - sentirti esprimere con queste parole è una boccata d’ossigeno - alla lotta di classe. Sei tornato a raccontare in modo intenso queste vicende nella bellissima conversazione apparsa, qualche giorno fa, sul Corriere della sera. E’ stata una fortuna per il paese Italia, per la causa dei lavoratori, come si chiamava una volta, e per tutti noi, quella scelta. Hai dato tanto, e con tanta forza e passione, che puoi essere soddisfatto, di te e della tua opera. Non è un caso che riesci a raccontare il tuo passato con una memoria serena, anche se inquieta.
Tu ritorni spesso, quasi con dolore e comunque con rammarico, sui tuoi errori. Ma vedi, Pietro, io trovo qui, un di più, non dovuto, di autocritica. Abbiamo sbagliato tutti, molte volte. Ma non sottolinerei, oggi, più di tanto, questo punto. Già siamo oppressi dal senso comune corrente, intellettuale e quasi ormai popolare, di essere stati noi, del movimento operaio di impronta comunista, gli autori di una storia sbagliata.
Mentre i nostri avversari, e qualcuno dei nostri concorrenti, avevano visto giusto e capito tutto fin dall’inizio.
Io credo che se dobbiamo rimproverarci qualcosa, questo sta nel campo di ciò che non abbiamo fatto, più che nel campo di ciò che abbiamo fatto male. E’ quando ci siamo autolimitati nelle nostre ambizioni di trasformare le cose in grande, proprio nel momento in cui avevamo la forza per realizzarle, quelle cose. E’ quando abbiamo abbassato la guardia, assunto una funzione subalterna, acconciandoci al piccolo cabotaggio del compromesso, inseguendo le contingenze e rimanendone alla fine prigionieri, non guardando più né indietro né in avanti. E’ quando abbiamo subito l’ossessione, che vedo ancora maledettamente presente in quello che resta di una sinistra maggioritaria, di farci legittimare da quelli che esattamente dovevamo combattere.
Ecco, questi sono gli errori che tu non hai commesso. Puoi andarne fiero: e vivere con tranquillità, direi, se possibile, con una olimpicità goethiana, quella che abbiamo chiamato la tua età dei patriarchi.
In realtà, hai cominciato a volere la luna, quando - come dici appunto nell’intervista – la lotta di classe è diventata il punto centrale della tua vita. La domanda è questa: si può consigliare questo preciso, ben determinato e, vorrei dire, realistico volere la luna a un ventenne o a una ventenne di oggi, l’età che tu avevi allora? Recita la litania: è cambiato tutto. Tutto è cambiato, tranne una cosa: quelli che comandavano ai tempi del tuo nonno Francesco, siciliano di Girgenti e garibaldino, o appena più vicino, ai tempi del mio nonno Domenico, crepato in un ospizio per poveri vecchi in quel di Tivoli, quelli, quelli stessi, comandano ancora. Allora avevano in proprietà un pezzo di terra, adesso sono proprietari del mondo, materiale e virtuale. Io penso che il problema nostro, che dobbiamo trasmettere alle nuove generazioni, è di capire e di sapere qual è la forma della lotta di classe con cui abbiamo a che fare oggi, per orientarci a pensare e per disporsi ad agire. Non è la vecchia forma, è la forma nuova, indotta da immani trasformazioni, che hanno sradicato e stravolto e alla fine mascherato le figure sia dei padroni che dei lavoratori, ma non le hanno soppresse, queste figure antagoniste, tanto meno le hanno sostituite, come si dice, con un interesse ormai comune. Quello che è in modo impressionante difficile oggi è il processo di riconoscimento delle contraddizioni reali e fondamentali. Perché tutte quelle che appaiono sono contraddizioni reali ma non fondamentali. Ci vuole una lama acuminata di pensiero forte e la scelta di una postazione di vita, di vita quotidiana, propria, che ti permetta la coltivazione di un punto di vista inassimilabile, inassorbibile, indisponibile.
Oggi non mancano, come vediamo ad occhio nudo, le rivolte, il tumulto, le emergenze, i barconi inzeppati di dannati della terra è uno spettacolo su cui vorresti chiudere gli occhi, non manca, purtroppo, la guerra. Ma io mi chiedo: perché abbiamo bisogno di queste cose per accorgerci, solo allora, che così questo mondo non va e che bisognerebbe di nuovo, anche qui in forme nuove, sovvertirlo? Mi pare di aver capito una cosa, che ritengo preziosa, e che ogni giorno pazientemente metto in pratica, guardandomi intorno: è che proprio nel tran tran del giorno per giorno, è quando non succede niente, quando tutto è apparentemente tranquillo, e l’ordine sembra perfetto – se ci pensiamo bene è poi il più gran tempo, il tempo normale - è lì che si esprime la vera subdola violenza del dominio.
E’ quando non te ne accorgi, e ti illudi di essere libero, è allora che sei veramente sottomesso. Tra i pensieri folli che spesso mi vengono, oggi molto attuali, uno è questo: beati quei popoli che hanno da buttar giù dal trono un tiranno. L’invisibile tirannide che ci opprime, giorno per giorno, ora per ora, in questi nostri meravigliosi giardini democratici d’Occidente, come la buttiamo giù?
E allora, di nuovo, se abbiamo qualcosa da rimproverarci, è questa qui: che lasciamo ai nostri figli, ai nostri nipoti, una condizione di vita, individuale e sociale, e uno stato interiore, che con una parola a me, ma so anche a te, cara, possiamo definire spirituale, peggiore di tutto quanto noi abbiamo vissuto.
Difficile perdonarci questa colpa. I potenti, i ricchi, i sovrapposti, i possessori delle nostre vite, non si sono mai sentiti così bene al sicuro come in questo tempo. Lo dimostrano il peso della loro arroganza, la volgarità della loro egemonia, le certezze della loro indiscutibile ragione. E’ qui che va posta la domanda: dove abbiamo sbagliato? Una domanda per tutti, uomini e donne, credenti e non credenti, rivoluzionari e riformisti. Non ci si può sottrarre.
Non per disperarsi, tanto meno per rassegnarsi. Al contrario, per riacciuffare il filo della lotta decisiva, come tu volevi "acciuffare" la luna dietro i monti di Lenola.
Va bene, Pietro, mi avevano chiesto di scrivere una lettera per il tuo novantaseiesimo, a nome di quella piccola comunità che è il tuo Crs, a nome di tutti, a nome del suo direttore, Walter Tocci, a nome mio.
L’ho fatto, nell’unico modo in cui si può fare rivolgendosi a te, non con i convenevoli, piuttosto conversando, ricordando, riflettendo, pensiero poetante….

"il manifesto", 31 marzo 2011

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