12.2.12

Quante Italie racconta Sanremo (di Giovanni De Luna)

Da Tuttolibri del 5 febbraio 2011 riprendo una recensione che contiene una interpretazione del Festival canoro diventato spettacolare. (S.L.L.)     
Sanremo cominciò nel 1951, con una «tre giorni musicale» (29-30-31 gennaio) trasmessa alla radio. L'orchestra la dirigeva il maestro Angelini e i cantanti erano solo due (Nilla Pizzi e Achille Togliani), con il supporto del Duo Fasano. Tutto qui. Pure, un Festival nato in sordina, senza «lanci» e «promozioni», riuscì a far diventare famose in una sola sera (e con un solo «passaggio» radiofonico!) molte canzoni, non solo quella vincitrice. La serata conclusiva fu seguita da circa 25 milioni di ascoltatori. Oggi quella data è diventata storica tanto da dare l'impressione che raccontare le vicende del festival sia un po' come scrivere pagine importanti del nostro passato, quasi che anno dopo anno le sue canzoni abbiano composto la colonna sonora della nostra quotidianità .
In questo senso, mettono subito le mani avanti i due autori de Il festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano la nazione, in uscita da Carocci: Sanremo - dicono Serena Facci e Paolo Soddu - «non è lo specchio della nazione», e non è nemmeno «un evento capace di dare la propria impronta al costume». Si tratta piuttosto di una grande narrazione, di un racconto autenticamente nazionalpopolare, in grado di riassumere con efficacia i tratti salienti di alcune tra le più significative situazioni storiche che si sono avvicendate nell'Italia repubblicana: un percorso che, da un lato, intreccia tutte insieme Grazie dei fiori e Nel blu dipinto di blu, Non ho l'età (per amarti) e Canzone per te, Per Elisa e Una vita spericolata, La terra dei cachi e Mentre tutto scorre, e, dall'altro, vede passare gli anni della ricostruzione, quelli del boom, e così via, fino a questo lunghissimo quindicennio berlusconiano.
Il racconto proposto da Sanremo non è però lineare; ci sono impennate, brusche accelerazioni e, in alcune fasi, un forte, effettivo «rispecchiamento». E' così, ad esempio, per le canzoni che accompagnarono il boom economico. Facci e Soddu ci ricordano che nel 1957, proprio nell'anno in cui in Italia spopolavano Only You dei Platters e Rock around the Clock di Bill Haley & The Comets, a Sanremo Carla Boni e Gino Latilla cantarono Casetta in Canadà di Panzeri e Mascheroni.
Collocata nello scenario dell'Italia degli anni 50, questa canzone raccontava la storia dell’interminabile fatica di tale Martin che, con incrollabile ostinazione, ricostruiva la sua casa «con vasche e pesciolini e tanti fiori di lillà», ogni volta sistematicamente distrutta dal suo cattivissimo nemico, Pinco Panco. Martin, la vittima rassegnata e inerme di Pinco Panco, fu denunciato come il simbolo emblematico dei valori dominanti, «del lavorare senza discutere e tollerare illimitatamente il sopruso». Le sue virtù, la pazienza e la laboriosità, diventarono i capi di accusa di una dura requisitoria.
Fu il gruppo dei Cantacronache a portarlo sul banco degli imputati. Attivo soprattutto tra il 1958 e il 1962, univa musicisti come Fausto Amodei e Sergio Liberovici, e proponeva testi di Michele Straniero, Emilio Jona e Giorgio De Maria, con la collaborazione prestigiosa di Italo Calvino e Franco Fortini. Ispirato da Brassens, Prévert, Brecht e dalla tradizione popolare italiana, il gruppo nacque con l'esplicito progetto di contrastare lo sfruttamento industriale della canzone, la deriva commerciale del mondo della musica. La canzone dei fiori e del silenzio, di Emilio Jona e Sergio Liberovici, può considerarsi un po’ il loro manifesto programmatico. La canzone è del 1958, proprio l'anno in cui a Sanremo trionfò Nel blu dipinto di blu di Modugno, un «volo» cantato a squarciagola che oggi appare un grido liberatorio e eccitante, in grado di restituirci le grandi trasformazioni che stavano scuotendo in profondità il nostro Paese negli anni del boom.
Si può quindi essere d'accordo con Facci e Soddu. Sanremo non è un «luogo» dell'identità italiana; è piuttosto «rappresentativo» di una delle tante forme che quell'identità può assumere. La contrapposizione tra la Casetta in Canadà e la Canzone dei fiori e del silenzio, può così agevolmente suggerire quella tra due Italie differenti, tra due diversi modi di declinare il nostro modo di essere italiani. Nel 1970 al primo posto si classificò Chi non lavora non fa l'amore, cantata dai coniugi Celentano. A decretarne il trionfo non furono certamente gli operai e gli studenti che avevano infiammato le piazze e le fabbriche dell' «autunno caldo»! E d'altra parte, la terza classificata di quello stesso anno, L'arca di Noè, cantata da Sergio Endrigo e Iva Zanicchi, vide entrare i suoi versi («Partirà / la nave partirà / dove arriverà / questo non si sa») nel repertorio della contestazione extraparlamentare, con la consueta deformazione che accompagna ogni volta questi «transiti», diventando «Partirà / la lotta partirà / dove arriverà / questo non si sa».
Erano infatti le musiche, più che le parole, a decretare il successo delle canzoni, a sancirne la capacità di introdursi anche nello spazio pubblico delle appartenenze politiche. Uno degli aspetti più significativi del libro di Facci e Soddu sta proprio nell'affiancare all'esame dei testi quello del linguaggio musicale. E' solo in tempi relativamente recenti che gli storici hanno scoperto di avere non solo occhi per vedere, ma anche orecchie per sentire.
Ne è nato un importante filone di ricerca che ha avuto in Marco Peroni (Il nostro concerto, Bruno Mondadori, 2004) e Marco Gervasoni (Le armi di Orfeo, La Nuova Italia, 2002) due giovanissimi pionieri e che è poi stato egregiamente coltivato da studiosi affermati come Stefano Pivato (La storia leggera. L'uso pubblico della storia nella canzone italiana, Il Mulino, 2002).
Tutti hanno dovuto confrontarsi con un problema: trattare le canzoni scrivendone, leggere come documenti solo i testi e le parole, amputandole della loro parte musicale e rischiando di naufragare in vere e proprie trappole (quando si parla dello spirito patriottico di Verdi, si citano i versi dei suoi librettisti o le armonie delle sue opere? Possono delle parole «rivoluzionarie» accompagnare delle musiche assolutamente «tradizionali»?). I due diversi percorsi disciplinari di Facci (etnomusicologa) e Soddu (storico della contemporaneità) in questo caso si incrociano in modo efficace, fugando ogni rischio interpretativo.
Dal libro si avverte, infine, la sensazione che proprio nel «quindicennio berlusconiano», a Sanremo, le canzoni abbiano progressivamente smarrito la loro centralità. Si ricordano le «edizioni di Baudo», non chi ha vinto. La logica dello spettacolo ha come soffocato la competizione squisitamente canora delle origini, così che, tornando al «rispecchiamento», a ripensarci, appaiono particolarmente significativi alcuni degli episodi che si sono svolti in quello stesso teatro Ariston, ma che non c'entravano niente con le canzoni. Penso all'apparizione sul palco di una delegazione degli operai dell'Ansaldo, «ospitati» da Pippo Baudo e costretti (negli anni Novanta) a raccattare briciole di protagonismo mediatico, quasi a sancire la sconfitta storica delle loro lotte; o al buffo tentativo di suicidio in diretta, con lo stesso Baudo che intervenne per salvare un disoccupato che voleva buttarsi da un palco: una protesta solitaria che anticipava in modo grottesco i gesti disperati che hanno affollato le cronache recenti e che rimbalzano dai luoghi dell'emarginazione.

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