12.2.12

In Russia. Controversia su Stalin (di Jean-Marie Chauvier)

Dal numero di aprile di “Le Monde diplomatique”, nell’edizione italiana curata da “il manifesto”, riprendo buona parte di un articolo, a mio avviso interessante ed informato sulle controversie politico-culturali in Russia e nell’ex Unione sovietica su Stalin e sull’intera storia del Novecento. Dall'articolo emerge la tendenza (del resto da ogni parte diffusa) a una lettura non solo partigiana, ma addirittura propagandistica della storia; ma quel che più impressiona è la chiusa, che rivela la totale ignoranza della storia nelle nuove generazioni, l’indifferenza ai valori che ne consegue, un appiattimento sul presente. Non è un fenomeno esclusivamente russo. (S.L.L.)
L'immagine di Stalin su un bus, a San Pietroburgo
Per la stampa non c’è più dubbio: «Stalin è tornato»; Putin si è «premurato di riabilitare l’Unione sovietica e il culto di Stalin»; del resto, «Putin, è Stalin con Internet». Al Cremlino suona un’altra campana. Il presidente Dmitri Medvedev ricorda i «crimini di Stalin», più volentieri del suo primo ministro Vladimir Putin. Il consigliere del Cremlino per i diritti dell’uomo, Mikhail Fedotov, annuncia la declassificazione degli archivi per marcare «l’addio al totalitarismo» (Interfax, 1° febbraio 2011). E, dalla fine degli anni ’80, non passa settimana senza nuove «rivelazioni». Convegni, giornali e serie televisive alimentano la requisitoria. I dirigenti hanno recentemente aggiunto un nuovo tassello al dossier: il riconoscimento del massacro di ufficiali polacchi a Katyn nel 1940. Raramente una società ha agito fino a questo punto per «smitizzare» la propria storia.
Dunque, parliamo veramente dello stesso paese? Esattamente come il passato sovietico, la personalità del vojd («guida») scatena una guerra di parole e di simboli che non risparmia la mummia di Lenin nel suo mausoleo della piazza Rossa. L’opposizione liberale esige che siano sbattezzati i luoghi pubblici che portano nomi di «carnefici» comunisti, fra cui quello di Rosa Luxemburg, accusata di terrorismo e di avere provocato una guerra civile.
«L’era sovietica» non si riduce tuttavia a Stalin. L’una è durata settantatre anni, l’altro ha «regnato» venticinque anni. Tre anni dopo la morte del dittatore sovietico, il 5 marzo 1953, i suoi crimini venivano ufficialmente denunciati da Nikita Krusciov, al termine del XX congresso del Partito comunista sovietico. Furono di nuovo denunciati nel 1961, in occasione del XXII congresso che decretò il ritiro delle spoglie di Stalin dal mausoleo dove riposava a fianco di Lenin. Alla fine degli anni 60, Leonid Brèžnev decise di farne un tabù. Una seconda destalinizzazione avrà luogo sotto Mikhail Gorbaciov, a partire dal 1985. Essa condurrà alla rottura con il bolscevismo e con la celebrazione della rivoluzione d’Ottobre. Un nuovo «patriottismo di stato» si sostituisce alle tradizioni sovietiche (3).
Dopo il 1961, le statue di Stalin sono scomparse, salvo a Gori, la sua città natale, in Georgia. Nel giugno del 2010, il presidente Mikheil Saak’ashvili faceva smontare la più importante. Preso l’abbrivio, ordinò la distruzione del memoriale di Kutaisi, dedicato agli eroi sovietici (non solamente russi) della guerra contro la Germania nazista. Accidentalmente, una georgiana e sua figlia morirono nell’esplosione. In Ucraina, una statua eretta dai comunisti nel 2010, a Zaporoje, è stata distrutta alla fine di dicembre dai «banderisti». Le dispute su monumenti, busti e musei si susseguono.
La stampa ha denunciato la ricomparsa sulla scena pubblica dei ritratti di Stalin e delle bandiere sovietiche. Di fatto, gli unici a esibirle sono degli oppositori comunisti e dei veterani... Nel maggio
2010, l’ex-sindaco di Mosca, Jurij Lužkov, ha voluto addobbare la capitale con qualche effigie del «comandante in capo» in occasione delle celebrazioni della Vittoria. Il Cremlino glielo ha impedito. Per nulla stalinista, il consigliere municipale democratico sosteneva l’idea molto diffusa che celebrare il maggio 1945 eludendo Stalin equivaleva a evocare la battaglia d’Inghilterra tacendo il nome di Churchill, o la Liberazione di Parigi senza menzionare de Gaulle. Quanto alla bandiera «sovietica», issata ogni 9 maggio in occasione delle parate della Vittoria, copia fedele (si dice) di quella che fu piantata sul Reichstag nel 1945, una legge votata dalla Duma nel 2007 pretendeva di rimpiazzare la falce e il martello con una stella bianca. Il presidente Putin non l’ha firmata.
Nel corso degli anni ’90, sono fiorite le opere anticomuniste. Lenin e Trotsky contendevano a Stalin il gradino più alto sul podio dei «peggio di Hitler». Ma, essendo stato introdotto nei programmi scolastici L’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, dovremmo forse stupirci di un’opposta corrente stalinofila? Ormai, manuali scolastici che non ignorano i gulag evocano le qualità di «manager» di Stalin e la «modernizzazione» che ha presieduto. Nell’ottobre 2010, gli insegnanti sono stati invitati a ispirarsi a un «patriottismo» non ancora ben definito.
In questa controversia, due nuclei irriducibili si affrontano. Da una parte, gli stalinisti, principalmente il Partito comunista della Federazione russa di Guennadi Ziouganov. Essi sbandierano la edificazione socialista, l’industrializzazione degli anni ’30, «senza la quale la vittoria su Hitler non si sarebbe potuta ottenere», la rivoluzione educativa, culturale e sanitaria, l’incremento della speranza di vita. Le ondate di repressione non sono negate, ma sminuite – e parzialmente giustificate. Secondo la logica cospirativa, la «distruzione dell’Urss» è naturalmente attribuita all’«imperialismo», ai servizi segreti americani, al «sionismo mondiale», ai «traditori» Gorbaciov-Jakovlev-Eltsin.
A questa requisitoria rispondono le arringhe in favore di Boris Eltsin ed Egor Gajdar (architetto della «terapia shock») «che hanno salvato l’Urss dalla carestia e dalla guerra civile». I circoli democratici liberali, vicini sia al potere sia all’opposizione, mettono in rilievo il Terrore, la carestia del 1932-’33 (ufficialmente responsabile del genocidio in Ucraina), i gulag, lo sfacelo del 1941, le stime di vittime diffuse dopo Solženicyn. La vittoria, stimano, è stata conquistata malgrado questo capo allo stesso tempo crudele e cretino, e non grazie a lui. Temi favoriti di questa campagna: Stalin è responsabile della guerra e ha anche «provocato» l’invasione hitleriana. Cinque milioni di prigionieri caduti in mano ai tedeschi? Anche in questo caso: colpa di Stalin.
Tra questi due poli emerge una discussione più sottile. Alcune inchieste segnalano visioni ambivalenti del passato: si condanna la repressione senza screditare i sacrifici dei padri fondatori o dei combattenti. La memoria è, di fatto, lacerata dalla stessa diversità delle epoche e delle situazioni vissute. Ne dà prova tutta una letteratura sconosciuta al pubblico occidentale – storie di regioni, di cantieri e di imprese, ricordi di contadini, di operai, di veterani, di «zeks» (prigionieri dei campi), diari personali, analisi della vita quotidiana e delle mentalità. Si evocano (e a volte confondono) tempi diversi. I testimoni dei grandi cambiamenti radicali diventano sempre meno, contrariamente
a quelli degli anni 1953-1985, associati al maggior benessere e alla stabilità. Da una generazione all’altra, non ci si ricorda della stessa «era sovietica».
Un altro approccio, «geopolitico», non vuole giudicare il passato in termini di perdite e profitti. Stalin può essere di volta in volta capo criminale e genio politico: il suo ruolo nel 1939 e durante la guerra è esaminato senza lodi né critiche. Questa analisi più fredda permette anche di parlare di attualità, di territori e di frontiere, dello statuto storico della Russia, della «disgregazione» che, al giorno d’oggi, la minaccerebbe. Allora, le implicazioni politiche ricompaiono. L’apertura degli archivi può servire da pretesto per diverse manipolazioni. Così, «la questione Stalin» divide molto opportunamente il fronte anti-Putin...
La «modernizzazione», leitmotiv alla moda, entra in risonanza con il passato. Una scelta liberale, pro-occidentale, europea – che la politica del presidente Medvedev privilegia – sarebbe contraria a una economia basata sulla mobilità nazionale ispirata all’esempio cinese e all’idea «eurasiatica»... In tutti i casi, il miglioramento della competitività russa sul mercato globale esige dolorose misure sociali, poco compatibili con ciò che un intellettuale liberale chiamava di recente «il cemento socialista», che irrigidisce la riflessione dei russi.
Da qui deriva, egualmente, l’interesse a estrarre Lenin dal marmo del suo mausoleo per interrarlo lontano dal cimitero (sovietico) del Cremlino, che si potrebbe anche radere al suolo. Portavoce di tale esigenza, Vladimir Jirinovski, dirigente dell’ultra-nazionalista Partito liberale democratico russo. Durante un dibattito televisivo, ha dipinto Lenin come l’incarnazione del male assoluto (Ren Tv, 5 maggio 2010). Tollerarlo, pur morto, sulla piazza Rossa suggerirebbe che il potere sovietico sopravvive ancora! Uno studente di 16 anni, che trovava il dibattito attorno a un «vecchio presidente» senza senso, fece presente che il suo problema era di non potersi pagare gli studi. Il conduttore gli ha domandato se il seppellimento o meno di Lenin cambierebbe qualcosa. «No», ha
risposto lo studente. Sognava la gratuità dell’insegnamento? La domanda non gli è mai stata posta.
(Traduzione di V. C.)

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