4.3.12

Fiabe. Basile e le geometrie erotiche di Napoli (di Pietro Citati)

Il 10 febbraio 1995 su “la Repubblica” Pietro Citati, in occasione della riedizione di Adelphi, pubblicò un breve saggio su Lu cunto de li cunte o Pentamerone che dir si voglia di Giambattista. Ne ripropongo qui alcuni brani. (S.L.L.)

Basile
Non sappiamo quasi nulla di Giambattista Basile. Sappiamo che nacque a Napoli nel 1575 e morì a Giugliano nel 1632: che fu a Candia, Venezia, Mantova: fece il soldato, il marinaio, il governatore di paesi e città nella Campania e nella Basilicata: appartenne all' Accademia degli Stravaganti di Creta e all' Accademia napoletana degli Oziosi; e il suo capolavoro, di cui Adelphi pubblica una nuova, bellissima edizione (Il racconto dei racconti, trad. di Ruggero Guarini, commento di Alessandra Burani e di Ruggero Guarini, saggi di Vittorio Imbriani e di Benedetto Croce, pagg. 672 lire 66.000), uscì postumo, e non finito, tra il 1634 e il 1636. Ma chi fosse quel napoletano "smilzo e focoso, tutto muscoli e nervi, bruno e fosco di colorito, con folte sopracciglia e occhi grandi e nerissimi", descritto e immaginato da Mario Praz, ci resta completamente sconosciuto.
Per quanto percorriamo Il racconto dei racconti, non c' è una fessura, o un pertugio o uno specchio, attraverso i quali possiamo ritrovare almeno una traccia o un' ombra di lui. Nessuno scrittore secentesco è più misterioso, impassibile, nascosto come in una tomba dietro le volute barocche e le fantasie favolistiche del suo libro. Basile aveva un' immensa memoria, dove raccolse, come un folclorista erudito dell' Ottocento, Pitrè o Croce, un tesoro ricchissimo di favole, tradizioni, usi, costumi, proverbi, modi di dire, giochi infantili di Napoli e del contado. Non "faceva altro che rivoltare le casse vecchie del cervello e frugare in tutti i nascondigli della memoria"; e poi gettava questi ricordi nel suo calderone shakespeariano, come le streghe del Macbeth vi gettano, per preparare il "brodo infernale", bisce di palude, occhi di ramarri e dita di ranocchio, peli di pipistrello e lingue di cane, zampe di lucertole, fegato di giudei, ali di gufo, scaglie di drago, budella di tigre, nasi di turchi, diti di bambini strozzati in culla [...]
Come avvampò il fuoco di Basile: come gorgogliò l' immenso calderone; e come la miscela stregonesca preparata nel racconto dei racconti fu folta, densa e fantastica!

Napoli
[…] Di solito la Napoli di Basile è plebea, miserabile, chiassosa, turpe: "contrasti con vetturini, imbrogli con tavernari, assassinii di gabellotti, pericoli di mali passi, cacaiole per i mariuoli"; taverne, bordelli, bische, malefemmine. Mai, nella letteratura italiana, Napoli è stata così viva e reale: mai abbiamo sentito questo sapore, questo odore, questo fetore, che esce e imbeve le pagine, come quattro secoli fa i vicoli e le strade.
Con una parte di sé, Basile era un moralista, che vedeva dappertutto i segni del mondo alla rovescia: "buffoni regalati, furfanti stimati, poltroni onorati, assassini spalleggiati, zannettoni patrocinati e uomini dabbene poco apprezzati e stimati". In realtà, la degradazione dei costumi e le disgrazie dei virtuosi gli interessavano pochissimo. Ascoltava e vedeva. […] Come il più aguzzo e preciso dei visionari, scorgeva la realtà molecolare: la maestra di cucito che insegna alle ragazze il punto a catenelle e le filettature: la cagnetta smarrita che ritrova il padrone e gli abbaia, lo lecca e scuote la coda: o la figlia della vecchia pezzente, che fa rosolare sette cotenne in un pignattino, e le mangia avidamente.
L' universo, di cui Napoli è la metafora più appariscente, è una congrega di mostri, di idioti e di rifiuti. Ecco gli Orchi-nanerottoli, con la testa più grossa di una zucca d' India, la fronte bitorzoluta, le sopracciglia unite e pelose, gli occhi storti e grinzosi, la bocca bavosa: le vecchie, con le ciocche scarmigliate, le tempie spennate, gli occhi scalcagnati, la bocca di cernia, la barba di capra, la gola di gazza, le mammelle a bisaccia: ecco i babbei, i tonti, gli idioti, che sfiorano la demenza e affascinano e incantano chi li vede; - e tutti i cocci di orciuoli, i pezzi di vasi e di coperchi, i fondi di pignatte e di tegami, gli orli di catinelle, i manici di anfora... Tra questi rifiuti la vita si è ridotta all' estremo. Si mangia e si defeca. Tutti divorano, trangugiano, ingurgitano, ingollano, inghiottono, ingozzano, strippano, pappano, ruminano, rosicano, ripuliscono quello che c' è in tavola: pastiere e casatielli, polpette, maccheroni e raffioli, pastinache e foglie molli, piccatigli e ingratinati, franfelicchi e biancomangiare; Napoli è un' immensa città-torta, che Basile divora con gli occhi e coi denti. Subito dopo, tutti defecano. Lo sterco assume ogni forma: genera meravigliose complicazioni, virtuosismi e ordigni barocchi: invade il dizionario, percorre il linguaggio amoroso; fino a che, in momenti di quasi delirio, il mondo ci sembra una sola diarrea dovunque proliferante.

Geometrie e fatagioni
[…] Meglio di ogni altro scrittore di fiabe, Giambattista Basile comprese il segreto della favola: il quale non consiste tanto nell' evocazione del meraviglioso e dell' impossibile, ma nella costruzione di un universo perfettamente geometrico, dove le azioni e le reazioni vengono ripetute con una astratta precisione. Le geometrie di Basile sono impeccabili, squisite e comicissime. Ma quelle tradizionali non gli bastarono. Volle costruire dei nuovi elementi ritornanti, che costituissero la sigla fissa e indimenticabile delle sue favole. Moltiplicò le albe e i tramonti: una fantasia metaforica, che aveva confini solo con i confini dell' universo, si limitò e si costrinse in una formula, che venne variata all' infinito. Così abbiamo albe e tramonti realistici, picareschi, manieristici, poetici, giocosi, preziosi, parodistici, teatrali, delicati, bellicosi, scurrili.
[…]Non c' è dono più quotidiano dell' oggetto magico e della fatagione - e basta che una palombella si levi a volo, perché un' aria di incantesimo avvolga gli spessi colori, suoni e odori dei mercati. Così, tra le mani di Basile, il mondo reale e quello fiabesco si fondono meravigliosamente: emanano lo stesso profumo; e la fiaba senza tempo diventa la Napoli del 1628 o del 1630, quando Basile la attraversava con occhi curiosi e desiderosi. Qualsiasi lettore avverte il passaggio delle Fate. Non importa che siano figlie di mercanti, o di osti, o di contadini, o di re. Basta che le guardiamo fissamente; ed ecco che la fata diventa, sotto i nostri occhi, una mortella, e la mortella una fata; e lo stesso accade a un dattero, a una lucertola, a un serpe, a un frutto di cedro, a una colomba, a un uccello - che conosce (noi non la capiremo mai) la lingua segreta insegnata da Salomone. Così i regni degli alberi, degli animali e delle fate costituiscono un solo regno, come nei miti sull' umanità primitiva: ciò che, secondo la Genesi, è inferiore all'uomo e prende nome dall'uomo, ha qualità, poteri e una preveggenza che l'uomo non conosce. Tutto quello che è fiabesco, sta sui confini tra questi regni. Signore delle metamorfosi, le fate si trasformano incessantemente, non perché siano costrette, ma perché questa è la loro vera vocazione. […]

L’amore e l’eros
Quando s' innamorano, essi amano con un desiderio, un ardore, una dolcezza, un incanto, uno struggimento, che (salvo in Madame d' Aulnoy) sono rari nei libri di fiabe. Come in Chrétien de Troyes, a volte è una ossessione amorosa, o un delirio narcisista. Il re di Frattombrosa giunge cacciando in un bosco, dove trova una "pietra di marmo"; e vi scorge un corvo appena ucciso, che macchia il marmo bianchissimo con il rosso del sangue e il nero delle penne: "O cielo, dice gettando un gran sospiro, non potrei avere una mogliera così bianca e rossa come quella pietra, e con i capelli e le ciglia nere come ' sto corvo?". E sprofonda tanto nel suo pensiero da diventare anche lui una statua di marmo, con quel pensiero "incastrato dentro il cuore come una pietra nella pietra". Il principe di Torrelunga si ferisce il dito mentre taglia una ricotta; e due stille di sangue, cadendo sopra la ricotta, fanno "un miscuglio di così bel colore e talmente grazioso... che gli venne il capriccio di trovare una femmina così bianca e rosa quale era appunto quella ricotta tinta dal sangue suo".
Come per una specie di discrezione, la scena d' amore viene rappresentata di rado: la favola evita il compimento erotico. Ma, nella Mortella, c' è un esempio supremo, di una dolcezza e tenerezza, che i giochi verbali rafforzano invece di celare. "Ora mo' capitò che una sera, coricatosi questo principe nel letto, e spente le candele, appena si fu il mondo quietato e tutti dormivano il primo sonno, egli sentì scalpicciare per la casa, e una persona avanzare a tastoni verso il letto... Quando sentì avvicinarsi la cosa, e tastandola s'accorse che era roba liscia e dove credeva di palpeggiare aculei di istrice trovava una cosina più tenera e morbida della lana barbaresca, più vellutata e soffice della coda della martora, più delicata e lieve delle penne del cardillo, le si slanciò addosso, e credendola una fata (come in effetti era), le si abbrancò come un polipo e, giocando alla passera muta, fecero a pietra in petto". […]

La prosa
La prosa di Basile è una torta dalle centinaia di sfoglie: dove si infittiscono le storie, le allusioni, le citazioni, i proverbi, le metafore, gli usi napoletani, i sensi, i sottosensi e i sovrasensi; e le sfoglie sono così concentrate, che noi dobbiamo scendere faticosamente nelle profondità. La prima legge è l' accumulazione verbale. Le parole si aggiungono alle parole: ognuna cerca di cogliere più da vicino e con più precisione l' oggetto, e insieme effettua una variazione fonica: le variazioni si succedono e mirano a un diapason; mentre insieme formano un sistemato metaforico compatto e coerente. Sullo sfondo sta Basile che, come il Tempo, ingoia tutto il dizionario e insieme ad esso il mondo, come se soltanto così potesse liberare il Riso, che salva noi e la vita dalla rovina. Ma egli non vuole, come credeva Croce, parodiare e ironizzare il barocco. Simile a Shakespeare, accumula immagini classiche, petrarchesche, realistiche, bizzarre, oscene, inverosimili: tutto ciò serve a far divampare più diabolicamente le legna del suo fuoco stregonesco: Double, double toil and trouble: Fire, bourn; and, cauldron, bubble; finché le immagini s' accendono, deflagrano e scoppiano disegnando cangianti e luminosi razzi nel cielo, mentre noi, rimasti a terra, ammiriamo questa potenza regale di immaginazione.
Il racconto dei racconti è prigioniero del Tempo. Sta lì, chiuso nei cinque piccoli volumi secenteschi: chiuso nel suo dialetto incomprensibile, che a me sembra più arduo della lingua di Pindaro e di Eschilo. Se vogliamo farlo uscire dal tempo, dobbiamo tradurlo incessantemente in italiano, come ha fatto per la prima volta Benedetto Croce nel 1924, immaginando per qualche mese di essere Basile, e facendo passeggiare la Filosofia dello Spirito per le vie di Posillipo e Chiaia. Della nuova traduzione di Ruggero Guarini posso dire soltanto che è persino più bella di quella di Croce. Guarini ha tenuto presente la vecchia traduzione: ma mentre Croce sveltisce e movimenta la prosa di Basile, egli ne rispetta la grandiosa e pesante sintassi barocca. Poi vi getta sopra un po' di fiori e di canditi napoletani, in memoria di quella città di zucchero e di pasta reale, di pasta foglia e di centofigliole, che noi abbiamo appena divorato insieme a lui.

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