3.3.12

Lucrezio poeta tragico (di Jolanda Insana)

Ho postato, a suo tempo, un mio scolastico promemoria su Lucrezio e il suo magnifico poema. (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/07/una-filosofia-della-salvezza-appunti.html )
“Posto” qui la lettura del poema lucreziano di Jolanda Insana, una poetessa di grande forza espressiva, capace di forgiare un nuovo linguaggio poetico contaminando lingua, lingue speciali e dialetto (messinese) e spingendo la parola fino ai limiti del dicibile. Di Insana, che è stata anche animatrice di una importante libreria del femminismo a Milano, ho qui proposto tempo fa pochi versi, ma convincenti e coinvolgenti.
(http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/03/la-poesia-del-lunedi-jolanda-insana.html )
L’interpretazione di Lucrezio prodotta da Insana è  divergente dalla mia: io insisto sulla caratura epica della sua poesia, lei la connette alla tragedia. Questa divergenza è in parte dovuta a sfumature e incertezze nell’uso di termini come “epico” o “tragico”, ma sottende in ogni caso due diverse letture della poetica lucreziana, su cui non mi spiacerebbero interventi critici. Il breve saggio di Insana – del resto – ha una chiusa che sembra darmi ragione. (S.L.L.)
Jolanda Insana. Foto di Enzo Eric Toccaceli
Il vero poeta tragico è Lucrezio che mette in scena errori e orrori, dando corpo e figura a ogni conflitto. E conflitto è anche l'amore-passione perché scontro di corpi e opposte volontà che in un solo punto si incontrano a chiedere l'identica cosa: l'insaziato piacere che più ne abbiamo più arde il petto di tremenda brama. Non c'è felicità, l'angoscia stringe e serra gli amanti. L'amore è proiezione del cuore, film d'autore, girato con sforzo di mezzi e luci sul paesaggio impalpabile e sfuggente dell'amata. Più semplice invece il piacere senza passione: contro ferite e tradimenti è molto meglio, dice Lucrezio con aspra misoginia, il bordello in confronto a quel bordello che è la coppia dove c'è chi prende e arraffa, e chi dà e spende energie e mente, senza compenso alla dissipazione del desiderio.
Il  De rerum natura  non è un poema didascalico, nonostante il programmatico didascalismo con tanto di argomenti, modi di argomentare e iterazione di versi. E non è neppure epico nonostante l'epicità di squarci e inquadrature, perché non è rassicurante: non rassicura niente e nessuno poiché alla morte non c’è scampo e non c’è nulla che scampi alla morte “immortale”.
La porta della morte non è chiusa né al cielo né al sole, né alla terra né alle onde del mare, ma sta sempre spalancata e guarda e aspetta e tutto risucchia. Nulla da temere, però, dopo la morte.  Soltanto la vita dà dolore.

Il De rerum natura è tragedia, la tragedia dell'uomo che cerca felicità e trova sofferenza. Si apre con il mostruoso sacrifìcio di Ifigenia e si chiude nel gran finale degli appestati che si rifugiano nei templi e muoiono: nulla possono gli dei contro la natura resolvens che tutto strugge e scioglie.
Forse ha un senso morale leggere il poema in un momento, come questo che stiamo vivendo, di nuove pesti e carestie, di iattura e armamenti, veleni e gas; e nessun dio soccorre, e non tutto è tyche, ca¬sualità, ma insanabile dissidio tra energia vitale ed energia morale…

Nulla esiste, dice Lucrezio con Epicuro, oltre la materia. Nulla si crea fuori dell'eterno conflitto tra forze costruttive e forze distruttive, regolato dal principio dell'isonomìa, senza il quale è catastrofe o incontrollata proliferazione.
Gli atomi, eterni e indistruttibili, sono infiniti, si muovono in un spazio infinito (che coincide con il vuoto) e deviando urtano tra loro: s'incontrano nello scontro e per concilia ge-nitalia generano ogni essere, il nostro e gli infiniti mondi, tutti corruttibili, tutti egualmente destinati alla morte. Perché i moti degli atomi sono genitales, auctifici, exitiales, e la na¬tura è «creatrix» quando gli atomi con i moti genitales danno origine alle cose, è «auctifica» quando ne porta a compimento la crescita. Dopo, si avvia il declino: la natura, «resolvens», distrugge le cose create, - sforacchiate e svuotate di materia dai moti exitiales. Ma gli atomi, liberamente muovendosi, tornano al vuoto infinito, e ritornano genitales per dare vita a nuovi esseri. In moto perpetuo.

E l'uomo, e l'anima? L'anima siamo noi che dobbiamo avere conoscenza dei limiti della natura, coscienza dell'infinita finitezza, del male che è nelle cose, ma anche dell'energia che sprigiona vita e acqua, fuoco e aria - aria per i polmoni, aria per le ali - acqua uguale a scarsa goccia, quando il male asseta e non c'è acqua che spenga la sete.
Nessuna sublimità eroica, eppure lottiamo contro la morte e la guerra, la ferocia belluina e l'inesorabile indifferenza della materia, nulla potendo contro casualità e accidenti. Lotta di conoscenza e accettazione che consente di respirare dentro l'uragano, di attraversare tempeste di mare, resistere dentro il terremoto. Questo è l’atteggiamento del saggio soave. Ma i saggi sono pochi. E allora Lucrezio vuole spiegare alla massa degli uomini cause e ragioni, proprio perché l’ignoranza (ignorantia causarum), fu rovina all’uomo che, privo di ratio, non potè con “pacata mente” guardare le cose e tutto attribuì agli dei, anche le passioni.

La ratio scioglie i viluppi, libera lo sguardo … certo è liberazione dai fantasmi dell'antica religione, trionfo della libertà contro ogni intervento ex machina, e mascheramento degli dei che più non corrono frenetici né si affannano a portare in giro discordie o falsi piaceri, come gli dei omerici che si azzuffano, si tirano i capelli e scalciano. Per questa divina epifania il De rerum natura è anche un poema sacro di umana pietas, nonostante il nulla, proprio perché tutto viene dal nulla e al nulla ritorna.
Dentro la scena dolorante della vita Lucrezio invoca «placida pace», e si fa banditore della verità, della ratio che sola può placare gli interni affanni. il suo e un viaggio non «in mentem dei»  ma in «in mentem hominis».

Sulla strada verso i “templa serena” gli è guida Epicuro, “rerum inventor», svelatore di verità, scopritore dei beni della vita, squarciatore della tenebra profonda. Ma bramare la serenità non basta. Impari è la lotta, troppo fragile l'uomo, troppo tormentose le visioni del mondo insidiato dal male dove tutto inesorabilmente va in rovina, finisce in liquame, entra nella bara, scende nella fossa, per temporale consunzione, nel lungo cammino della vita. E davanti alla vite, vecchia cadente e insecchita, impreca e si lamenta il contadino che la piantò, cielo e tempo accusando.

Se non fosse per la forza della parola, sensuale e violenta, che sprigiona gioiosa vitalità anche nei passaggi di raccordo e nella ripresa delle argomentazioni, al lettore di oggi interesserebbe poco la struttura atomistica che regge i settemila versi del poema. Il poema gli interesserebbe giusto come testimonianza di un'epoca e di una cultura filosofica. Lo attrae però la rappresentazione che Lucrezio dà di quel mondo celato che è l'uomo nella sua tremenda immutabilità, tanto nel bene quando nel male, nella sua assoluta solitudine.
Le parole Lucrezio le torce in un impeto, le forgia, le impasta e le fa lievitare, le arcaizza e le innova, le radicalizza, e le piega a un vento che spira forte e a tratti dolcissimo, le infila nell'armamentario paranomastico, e le affila. E l'esametro scivola e s'inerpica, s'inceppa e stride. E' un pugno o una carezza. Al limite dell'intraducibilità è questo poema di sangue e fiato, di fuoco e pece, visionario e ossesso, che vuole una lingua forte, di sommovimento, un ritmo denso, un flusso teso e di corrugamento, con le più impercettibili vibrazioni e le parole isolate, solitarie, nell'avanzata del verso. Foscolo ci rinunciò, come del resto rinunciò a tradurre Omero.

Da “il manifesto – la talpa libri”, venerdì 5 ottobre 1990

Nessun commento:

Posta un commento