1.7.11

Una filosofia della salvezza. Appunti sul poema di Lucrezio.

Il testo è la stesura di un percorso didattico costruito nel 1995 per una terza del Liceo Classico, in previsione degli esami di maturità.  Serviva a comporre in un quadro unitario i brani lucreziani inseriti nel programma ed è stato distribuito in fotocopia agli allievi. (S.L.L.)
1. Il poema della natura
Il De rerum natura è un’esposizione poetica della fisica epicurea con intenti prevalentemente morali. L’opera si innesta nella tradizione del poema didascalico, che aveva il suo archetipo greco nelle opere di Esiodo ed aveva a Roma un antefatto illustre in Ennio. Tuttavia la scelta di una tematica che non avesse come oggetto una disciplina particolare, ma la struttura dell’universo da una parte e l’arte di vivere bene dall’altra, dava all’opera un tratto “totalizzante” che era proprio del discorso epico. Nel disegno lucreziano rientra infatti tutto il sapere, seppure sottoposto ad una radicale revisione, per cui l’opera si propone come “enciclopedia” e come “guida”. Non c’è più la mitologia, se non utilizzata eccezionalmente con finalità esornative ed esemplificative e talora piegata ad allegoria, e non c’è più, pertanto, la terribile religio che ha reso l’uomo schiavo di vani timori e pronto ad orrendi crimini; non per questo manca una fede, razionale quanto si vuole, ma pure pervasa di entusiasmo quasi mistico.

2. Filantropia e carità
Nel tempo in cui a Roma cominciano a diffondersi i culti soterici, le cosiddette “religioni della salvezza”, l’epicureismo appare a Lucrezio ed è da lui comunicato alla stregua di una “filosofia della salvezza”. Il suo fondatore, sia negli elogi collocati ad apertura dei libri I, III e V, sia nelle altre allusioni, non è presentato pertanto come un “saggio” imperturbabile, un filosofo freddo e raziocinante, e ancor meno come un gaudente bonaccione, ma piuttosto come un novello Prometeo, un liberatore e un salvatore. Epicuro è, per Lucrezio, colui che, con il suo coraggio, ha spezzato le catene della superstizione e ha redento gli uomini e le loro menti dalla schiavitù dei falsi terrori, delle false ambizioni, delle passioni e delle angosce.
Lo sfondo che determina i confini del messaggio lucreziano è la crisi della repubblica romana. A questa crisi, già in atto da parecchi decenni e capace di produrre un cumulo di odi, conflitti, ambizioni smodate, le reazioni che la letteratura documenta sono assai varie, ma quasi tutte sostanzialmente evasive. Né le tragedie o i poemi celebrativi degli stanchi epigoni di Nevio e di Ennio, né la sperimentazione tematica ed espressiva dell’avanguardia “neoterica” sembravano in grado di rispondere agli interrogativi che essa proponeva. I politici scrittori, da Cesare a Sallustio, a Cicerone, piegavano le lettere ad esigenze di parte, allo scontro delle fazioni; altri, come Varrone e Cornelio Nepote, si affidavano all’erudizione, altri ancora, come Catullo ed i suoi amici, sembravano cercare un’evasione nella raffinata poesia mitologica ed erotica. Unico Lucrezio si propone come eversore del sistema e, da questa prospettiva, giudice inflessibile sia di chi partecipa al conflitto, sia di chi se ne tira fuori. La sua dottrina, infatti, scardina  i fondamenti della civiltà  romana (la virtus, la pietas) e li ribalta nella battaglia per una utopica società epicurea, in nulla somigliante alla repubblica violenta e predatoria dei generali, ma prefigurante un mondo pacificato fondato sull’equanimità, sul rispetto per l’altro, sulla consapevolezza dell’umana fragilità, sulla reciproca amicizia. Mentre per i più le armi, il diritto, la religione sono le fonti della potenza romana, per l’epicureo Lucrezio, nel tempo di Silla, di Spartaco, di Catilina, dei triumviri, le guerre sono una maledizione, il diritto è spesso ratifica delle ingiustizie, la religione ufficiale è all’origine di angosce e terrori infondati e, contemporaneamente, strumento di manipolazione e di dominio. Alla lucida demistificazione lucreziana non si sottraggono l’amore-passione, visto come alienazione dell’identità, e le tecniche produttive, che, se mal indirizzate, ad esempio verso la guerra o la produzione di beni superflui, congiurano anch’esse alla distruzione e all’asservimento degli uomini. L’affermazione dell’otium come valore assoluto, della pace nel suo duplice significato di silenzio delle armi e di serenità interiore, non è pertanto in Lucrezio espressione di un disimpegno, quanto di una volontà consapevole e ferma di soluzione.
Come esempio di quest’atteggiamento vale il proemio del libro II con la contemplazione di un naufragio e di uno scontro militare. Nell’isolarsi del saggio, nel suo stare a guardare, non c’è viltà o gretto egoismo, ma cura verso gli uomini che, ciechi ed insensati, scelgono di vivere nelle tenebre e nel pericolo e vagano sbandati senza riuscire a trovare la “via della vita”, impegnando i giorni e le notti nella corsa assurda al potere o alla ricchezza. Quando vi si legge che, al contrario, nulla il saggio pretende per sé, se non quanto la natura stessa reclama, viene da pensare al Taoismo cinese: “Tao” vuol dire appunto “via della vita” e il principio chiave dei seguaci di Lao tse, pur nelle loro distinzioni, consiste proprio nel seguire la natura. Ma, nella denuncia dell’“alienazione” degli uomini, del loro uscire da sé per perdersi nelle cose, può intravedersi una “carità” non diversa da quella che anima Dante nel suo Paradiso. Nel canto di San Francesco, Dante, accolto in cielo, osserva dall’alto gli affanni degli uomini, enumerando le loro vane ambizioni, esattamente come Lucrezio nel suo proemio. E’ molto improbabile che egli avesse una conoscenza diretta del De rerum natura, ma la somiglianza è impressionante, non solo nelle scelte inventive, ma anche in quelle espressive. “O miseras hominum mentes, o pectora caeca!” esclama Lucrezio; “O insensata cura dei mortali…” gli fa eco Dante.
La salvezza per Dante consiste nello sciogliersi delle passioni terrene grazie alla fede ed alla carità, in Lucrezio si identifica con un otium fondato su scienza e solidarietà. Questo nesso è esplicitato nel proemio del libro sesto, elogio, oltre che di Epicuro, della sua città natale, Atene. A spingere Epicuro alle “parole di verità” (veridicis … dictis) fu l’amore per gli uomini.
Quando si avvide …  che in segreto ciascuno aveva il cuore in ansia (anxia corda) ed era spinto contro voglia (ingratis) a tormentarsi la  vita senza posa e ad infierire su se stesso con i lamenti, capì che il male veniva dal vaso stesso e che tutto quello che veniva dal di fuori, anche se buono ed utile, si corrompeva al di dentro a causa di quel difetto…
Qui il pessimismo dell’osservazione morale si coniuga con la potenza dell’osservazione psicologica e le metafore, sobrie (l’animo come vaso, vas), non risultano né decorative né evasive. La similitudine finale del brano, già presente nel secondo libro, è un’esplicitazione didascalica dell’equazione ignoranza-infelicità:
Come i bambini tremano ed hanno paura di tutto nel buio cieco, così noi in piena luce temiamo cose che non sono più tremende di quelle che atterriscono i bimbi nell’oscurità e ce le sentiamo arrivare addosso. E’ perciò necessario non che i raggi del sole, non le splendenti saette del giorno caccino via dall’animo il terrore e le tenebre, ma la conoscenza razionale della natura (naturae species ratioque)”.
E’ pertanto la scienza, assai modernamente intesa come osservazione (species) ed elaborazione teorica (ratio) della realtà naturale, l’unica possibilità per salvare l’uomo dal terrore e dalla menzogna.
Questa forma peculiare di filantropia, intimamente connessa alla lettura lucreziana del messaggio di Epicuro, si può, senza rischio d’errore, definire illuministica. Lo è nell’immagine dominante, la luce della ragione contro le tenebre dell’ignoranza, lo è perfino nei difetti e nelle aporie. I rischi dell’intellettualismo, cioè della sopravvalutazione del sapere scientifico, che saranno poi tipici dell’Illuminismo settecentesco, sono in agguato già in Lucrezio. Il corretto uso della ragione non basta, in effetti, a guarire dall’infelicità e dalla paura. Basti un esempio tra tanti: la morte. Ha voglia Lucrezio di affermare che non bisogna averne paura, che essa fa parte di un processo naturale necessario, che per noi non è nulla, poiché quando c’è lei non ci siamo noi; lo spettro della morte, della distruzione dell’io e quello di un Aldilà, ove sia concessa una qualche forma di sopravvivenza individuale, nondimeno incombono sulla sua fantasia, come del resto percorrono la realtà fisica e psichica degli uomini, inclusi i più saggi e scientifici tra loro.
Resta il fatto che mentre l’Illuminismo moderno appare più in sintonia con il suo tempo, connesso com’è alle istituzioni, allo sviluppo del sapere e delle forze produttive, ai conflitti sociali del Settecento europeo, fino al punto che sembrò incarnarsi in una Rivoluzione che pretese paradossalmente il culto paradossale di una Dea Ragione, quello di Lucrezio appare decisamente fuori tempo e fuori luogo, si configura come un’utopia in una civiltà come quella romana della tarda repubblica, edificata su una violenza di cui il diritto non era argine ma quasi sempre sanzione, incrementata dalle peggiori forme di negotium, agitata dalle passioni, alienata.

3. Dottrina e poesia
La “questione lucreziana” per eccellenza è stata a lungo rappresentata dalla natura del suo epicureismo o, più esattamente, dalla maggiore o minore fedeltà del poeta romano al messaggio del filosofo ateniese. Essa appare oggi definitivamente risolta e superata sia sotto il profilo storico che filologico. La contrapposizione tra un Epicuro “ottimista” e di un Lucrezio “pessimista” non sembra reggere di fronte all’analisi critica di testi che sono, in un caso e nell’altro, problematici, e cioè disponibili alle interpretazioni. Si è scritto di un Lucrezio ed un Antilucrezio, ma si potrebbe ragionevolmente ragionare di un Epicuro e di un Antiepicuro. In realtà i due autori sono “classici” e come tali si comportano, producendo cioè gli effetti di cui ha parlato Italo Calvino in un suo celebre saggio (Perché leggere i classici): “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire” oppure “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”.
Quello che piuttosto conta è la dichiarazione lucreziana di attenersi al “maestro”, di seguirne rigorosamente le orme. Ciò non esclude (è stato notato con buoni riscontri) che su questo o quel punto, soprattutto di fisica (le macchie solari, l’eclissi eccetera), l’allievo possa richiamarsi ad altre tradizioni (Empedocle, gli stoici e perfino i Peripatetici) per correggere qualche incongruenza o colmare qualche lacuna, o che su qualche altro possa persino aver frainteso il maestro; ma esplicita la volontà di conservare una eredità, di attenersi ad una scuola, di immettersi in una corrente. Ciò consente di verificare l’infondatezza di una tesi che pure ha avuto ampio corso nella letteratura critica, quella secondo cui Lucrezio si distacchi da Epicuro su un punto cruciale, facendosi cioè banditore di quella poesia che il maestro aveva senza appelli condannato come fonte di turbamento. In effetti la critica di Epicuro (come del resto quella, assai diversa, di Platone) appare rivolta soprattutto alla poesia drammatica e agli elementi drammatici dell’epos, alla poesia che imitava le passioni e le concentrava, inducendo il fruitore al coinvolgimento ed alla tensione.

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