24.3.12

Tra cugini. Una maliziosa poesia di Edmondo De Amicis.

Io portava il giubbino, Lena le vesti corte,
Lena era bionda e bella, ed io così così;
io maltrattavo il greco e Lena il pianoforte
e scrivevamo ancora ciliegia con due g.

Come tra i canti e i giochi la fiamma prematura
nell’anima tranquilla nata ci sia non so;
ci urtammo un dì correndo in una stanza oscura,
ed io l’amai quel giorno e Lena m’adorò.

O bel giardino ombroso! Cari mattin d’aprile
passati ai suoi ginocchi, muto, coi libri al piè,
a numerar le vene della sua man sottile,
sommesso come un paggio, superbo come un re!

Cara vestina azzurra sparsa di bianche stelle,
le tue mille pieghine come ricordo ancor,
e il fresco odor di bimba de le sue braccia belle,
e il lungo riccio d’oro che le pendea sul cor!

E un dì, soffiando il vento, nell’ombra d’un sentiero
vidi la sua rotonda gambina biancheggiar;
arsi, tremai, m’ascosi, e su quel gran mistero
rimasi lungo tempo, immoto, a meditar.

E da quel giorno al canto l’anima mia s’apriva
e le dissi ogni sera un lungo inno d’amor;
c’eran dei versi falsi, ma lei non li sentiva
e alzava il capo altera del suo gentil cantor.

Ma poi su la mia spalla chinando la testina
dicea sommessamente con voce di dolor:
“Che vale amarci tanto? Io morirò bambina!”.
E sbucciando un arancio, piangeva sul mio cor.

“Ci sposeremo?” un giorno mi domandò pensosa.
Ed io le dissi: “Lena, lo giuro sull’onor!
Se quando avrò un impiego tu non sarai mia sposa
possa tutta l’Italia chiamarmi traditor”.

E un dì spegner si volle per sempre l’amor nostro,
e giurammo piangendo: “Domani si morrà!”.
Lena voleva bere un bottiglin d’inchiostro
ed io piantarmi in core lo stocco di papà.

Ma il dì seguente, giorno d’un santo di famiglia,
al Caffè grande insieme la mamma ci menò,
E davanti a un gelato di crema alla vaniglia
Il disperato orrendo pensier si dileguò.

Lena, e ricordi il giorno che coi parenti in guerra
sfogliando un vecchio atlante, pensosi di fuggir,
sedotti dal rosato color dell’Inghilterra,
In Inghilterra insieme giurammo di morir?

Lena, ricordi ancora gli amanti di romanzo
che agli atti, ai detti, ai passi studiammo d’imitar,
e i bocconi piccini che facevamo a pranzo
il vil pasto brutale fingendo di sprezzar?

Ricordi il dì che stanchi di pranzi a bocconcini,
affamati dal lungo digiuno dell’amor,
ci divorammo insieme quattordici panini
soffocando le risa che ci venian dal cor?

E il giorno che alla pioggia, per lunghe ore, sui tetti,
sfuggiti della mamma all’occhio indagator,
nel tuo scialle turchino incappucciati e stretti
come in un caldo nido covammo il nostro amor?

E il giorno che parlando con tutti a fronte china
come dal peso oppressa d’un intimo dolor
celasti del mio bacio l’impronta porporina
che sul tuo collo bianco rassomigliava a un fior?

E il dì che giunse il fiero tuo babbo all’impensata
E me cogliendo stretto al fianco tuo, gridò:
“Bada che se ti piglio t’allungo una pedata!”
Ah il dolor di quel giorno mai più non scorderò!

Lena pietosa e cara! Uscivo irato e stanco
dall’unghie intabaccate d’un vecchio professor,
ma visto di lontano quel grembialetto bianco
un grido d’allegrezza mi prorompea dal cor.

E alla sua stanza chiusa venivo a notte oscura
cutamente la soglia di pianto a inumidir:
Lena baciava l’uscio ed io la serratura
pl buco della chiave mandandole i sospir.

E mi dicea talvolta con infantil candore
co la sua man di bimba scostandomi da sé:
Ah! per amor del cielo non togliermi l’onore!”.
E si copriva il collo e nascondeva il piè.

E un dì le dissi: — Quando sul cor ti tengo stretta
Cento profumi arcani mi sembra d’aspirar!
“E’ un’essenza — rispose — da un franco la boccetta;
E il fazzoletto bianco mi porse ad odorar”.

E mi chiedea sovente: “È tutto mio quel core?
Altri secreti affetti l’anima tua non ha?
Non pensi ad altre bimbe? Non guardi le signore?
Io non t’ho fatto ancora nessuna infedeltà!”.

E in mezzo alle compagne meditabonda e sola
fingea d’aver l’affanno d’un gran secreto in cor,
ed io mostravo in volto sui banchi della scuola
l’aria noiata e stanca d’un vecchio seduttor.

Così fra giochi e pianti, carezze e giuramenti
un anno avventurato come un balen fuggì,
e noi felici, alteri, imbaldanziti, ardenti
aspettando le nozze numeravamo i dì.

Ma un giorno, ahi giorno! ad altri lidi un fatal Decreto
Il babbo de la dolce fanciulla mia lanciò,
e la trama gentile del nostro amor secreto
in nome dell’Italia per sempre lacerò.

Secreto? Ah no! In cospetto di tutti, all’ultim’ora,
un incauto singhiozzo l’arcano mio tradì,
ed il paterno piede scansato fino allora....
Stendiamo un vel pietoso su quello che seguì.

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