10.6.12

Esportare la libertà? Il mito imperialista dei diritti umani (Luciana Castellina)

Il testo che segue, del 2007,  è di una giornalista di prim’ordine e di una comunista rigorosa e appassionata, Luciana Castellina. E’ per un verso recensione di un libro di Luciano Canfora, per l’altro requisitoria contro la cosiddetta libertà fatta viaggiare sul dorso dei bombardieri Usa. Ne posto qui una parte, senza rinvii, come contributo al tema della guerra che i compagni ternani del circolo del “manifesto” affronteranno sabato 22 prossimo. in incontro di sostegno al quotidiano e alle sue storiche campagne contro le guerre del nuovo imperialismo. (S.L.L.)
P.S. Esce il 15 giugno prossimo un documentario di Daniele Segre, Luciana Castellina, comunista. Chissà se si potrà vederlo fuori dal festival bolognese nella cui programmazione ha un ruolo importante?  

La frase pronunciata da Robespierre - che, più di duecento anni prima dell'invasione occidentale dell'Afghanistan e dell'Irak, avverte: «l'idea più stravagante che possa nascere nella testa di un uomo politico è quella di credere che sia sufficiente per un popolo entrare a mano annata nel territorio di un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua Costituzione» - la ricordavo. E tutti ricordiamo naturalmente l'amara lezione subita da Napoleone. E però non mi era mai venuto in mente che la stessa arrogante ipotesi potesse esser rintracciata anche nel 400 a.C. a testimoniare una sconcertante continuità storica. Pensavo che la retorica sui diritti umani, alla base del moderno «diritto d'ingerenza», fosse fenomeno più recente, prima non indispensabile per scatenare le guerre.
Quello che è sempre fantastico nei libri di Luciano Canfora - che in questo suo ultimo Esportare la libertà. Il mito che ha fallito (Mondadori «Frecce», pp. 104, € 12,00) ricapitola tutti i precedenti della dottrina Bush a partire dalla grande guerra del Peloponneso - è come egli riesce a usare la sua acuta conoscenza del mondo antico per spiegarci meglio il nostro presente. Qui cavalca 2.500 anni di guerre dichiarate in nome della libertà, partendo dai primi «missionari armati», gli ateniesi, scesi in battaglia contro i persiani per liberare i greci; e poi attaccati dagli spartani che prendono le armi contro di loro per liberare a loro volta i greci, finiti vittime del loro precedente liberatore, Atene. Perché la libertà non si esporta con le armi, come hanno dovuto imparare gli odierni marines che, come nel 400 a.C. sono riusciti a far sì che chi volevano liberare finisca per rimpiangere l'ancien règime, anche se si tratta di burka e Saddam Hussein.
Allora come ora si scopre «l'abisso che separa la proclamazione, efficacissima, della libertà da ripristinare nell'impero avversario e l'effettiva strategia della potenza in lotta». I bruschi mutamenti di fronte, il continuo cambio di cavallo, le alleanze con il nemico di ieri e la rottura con gli amici: il gioco è antico ma certo diventa sempre più spericolato nel tempo che viviamo. Afghanistan e Irak, da questo punto di vista, indicano che anche l'impensabile è possibile.
Ma già - oltre gli interventi di sostegno più noti e ovvi (a Pinochet, ai generali argentini ) - si erano avuti in questi anni precedenti non da poco e subito fatti dimenticare: il sostegno americano a Pol Pot contro il Vietnam, per esempio, ci ricorda Canfora; e, al contrario, la richiesta di punire il Sudan per il Darfur, pur prezioso amico solo qualche anno prima, quando servivano ben addestrati islamici per operare in Bosnia.
Mai come in questi anni la bandiera della libertà ha viaggiato per il mondo sul dorso dei bombardieri seguendo itinerari cosi stravaganti: il crollo dell'Urss, rompendo gli equilibri, ha aperto la strada al più totale e spregiudicato unilateralismo dell'iniziativa, che ormai garantisce arbitrio ovunque. Ma il tentativo di portare la libertà sulla punta delle baionette non è solo frutto dell’ipocrisia con cui si coprono le mire imperiali. C’è – e Canfora lo rintraccia via via nelle diverse vicende storiche – anche un fenomeno più sottile: la persuasione che il proprio interesse coincida con quello dell’umanità, in quanto portatore di una civiltà superiore. In questo l’espressione “missionari armati” va presa alla lettera, poiché c’è anche, autentica, una convinzione che dà forza alla volontà di redenzione: politica o religiosa.
Mai però la pretesa è stata così forte come nell’impero americano. Perché gli Stati Uniti, fin dalla nascita, hanno nutrito la loro identità nazionale dello spirito messianico che aveva animato i rpimi coloni protestanti inglesi – le missioni insediate già nel Seicento al di là dell’Atlantico, per l’appunto -, i quali nel nuovo mondo avevano sognato di costruire la nuova Gerusalemme, contro la vecchia putrida società castale da cui erano emigrati.
Un mito che poi si è radicato, alimentato dall'isolamento geografico e dunque culturale, e ha finito per penetrare il senso comune anche dei più progressisti fra i cittadini americani, che, comunque, non sono disposti a mettere in dubbio l'idea che il loro sia il miglior modello possibile, un dato che giustifica 1'«eccezionalismo» del paese, in nome del quale gli è concesso quanto ad altri è negato: portare la (loro) bandiera della libertà ovunque e con tutti i mezzi.
Una storia antica, recitata da Melville quando parla del «popolo eletto», un concetto ripreso da tutti i presidenti: da Reagan, che fa discendere da un disegno divino la speciale fede dei cittadini statunitensi per la libertà; da Clinton, che - per citare la dichiarazione del suo consigliere Strofe Talbott - esprime la certezza che l'America sia «l'unico paese fondato su un insieme di idee e ideali applicabili a tutti i popoli del mondo». Non sono convinzioni di una specifica élite politica, sono cultura popolare.
Quanto a chi il modello americano deve riceverlo, non vale la pena neppure interrogarsi su cosa voglia l'altro, il diverso, non esiste se non come derogativo, come oggetto di conversione. ( La cosa più triste della guerra dell'Irak è stata, nei primi giorni dell'invasione, il volto smarrito del soldatino americano che si guardava attorno senza neppure la più pallida idea di dove si trovava, certo soltanto che si trattava di portare la civiltà in terra di infedeli. I guerrieri delle Crociate erano più smaliziati).
Anche la Rivoluzione francese, certo, ha avuto la stessa arroganza nell'imporsi come nuovo universalismo e tutt'oggi la pretesa integrazionista dello stato francese ne porta il segno, ponendo le sue leggi e principii come punto d'arrivo di un processo di civilizzazione che si vede come lineare, all'altro essendo riservato solo il diritto di «arrivare» al medesimo traguardo.
E’ comunque per via dell’egemonia conquistata da questo universalismo, arbitrario perché unilateralmente definito, che oggi non è poi così facile neppure per il movimento pacifista battersi sempre con coerenza contro le guerre di esportazione della libertà. Basti pensare alle sue oscillazioni sul burka, o sulle tante trappole appostate da una concezione imperialista dei diritti umani…

“alias – il manifesto” 3 marzo 2007

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