9.6.12

Le Olimpiadi resuscitate da ideali freddi e corrotti (di Per Olov Enquist)

Nell’estate 2007 “il manifesto” offriva ai lettori dei “ritagli d’autore”: nel giorno di ferragosto stralci da una sorta di storia delle Olimpiadi di Per Olov Enquist, in gioventù campione di salto con l’asta, poi narratore, drammaturgo e giornalista, anche sportivo. Riprendo qui una parte di quella interessante pagina. (S.L.L.) 
Pierre De Coubertin
Il piccolo, grande Coubertin diede un giorno una festa. Il santo, piccolo Coubertin aveva il dono di sapere organizzare banchetti, tutti ne convenivano e tutti lo amavano. Era il giugno del 1894, a Parigi, nel corso di un congresso di educazione fisica nel quale ci si sforzava di definire il concetto di «amatoriale». Fu allora che Coubertin presentò il proprio progetto di resuscitare i giochi olimpici. In prima battuta, ovviamente, tutti pensarono si trattasse di un'idea sciocca, come se si fosse voluto recuperare l'Oracolo di Delfi, ma presto ci si abituò all'idea.
Aveva lanciato la proposta pensando all'Esposizione Internazionale che avrebbe avuto luogo a Parigi, nel 1900, ma bisognava aspettare ancora sei anni. La sfida era di mantenere alto l'entusiasmo suscitato con tanta difficoltà. Si rischiava di cadere in una forma di disillusione.
Valeva forse la pena tentare in un'altra città, fare una prova e infine trasferire tutto a Parigi in una forma perfezionata? Un poeta greco, Bikelas, propose il nome di Atene, offrendo al tempo stesso alcune garanzie. L'ultima riunione volgeva al termine, tutti gli sguardi erano rivolti verso Coubertin, «Atene» - disse - assaporando la parola e aggiungendovi un impercettibile segno col capo. Un primo brusio olimpico, in segno di approvazione ed entusiasmo, si diffuse nella sala.
Atene 1896, i primi giochi erano fissati.

Una questione pedagogica
In realtà, il barone Pierre de Coubertin aveva molte riserve su questa idea di «giochi olimpici». Prima di tutto, era un politico estremamente nazionalista e interessato principalmente a questioni di pedagogia. Nell'istruzione pubblica vedeva uno strumento politico di importanza capitale. Cambiare il sistema di insegnamento significava realizzare un vero lavoro politico e, per questa ragione, contemplava con rabbia e dispiacere la decrepitezza e il degrado della scuola in Francia. Ma quali erano, allora, i modelli buoni secondo il suo giudizio? Non poteva fare riferimento alla Germania: troppo fresche e profonde le piaghe della guerra del 1870. Fu dunque all'Inghilterra che guardò Coubertin. Esisteva una vecchia formula, che diceva: «Waterloo non è stata conquistata sul campo di battaglia, ma sui campi sportivi di Eton». L'educazione fisica della potente classe dirigente inglese aveva deciso le sorti della guerra. E più Coubertin rifletteva, più tutto questo gli pareva vero. La chiave della rivoluzione pedagogica si trovava proprio nella tradizione sportiva anglosassone. Gli inglesi erano manifestamente i più grandi imperialisti del mondo. Se lo erano, dovevano rendere grazie a una educazione nella quale lo sport occupava un ruolo importante.
I francesi dovevano cominciare a fare altrettanto, praticando lo sport, per diventare imperialisti altrettanto valorosi. Questo ragionamento parve a Coubertin di una logica stringente e inconfutabile, e cominciò così a fare la sua propaganda. Nessuno lo ascoltava e non furono pochi quelli che si presero gioco di lui…
Ma più Coubertin conviveva con la sua ossessione olimpica, più si dimenticava le ragioni per le quali l'idea stessa gli era venuta. Questa idea aveva i suoi risvolti politici e, come politico, Coubertin era un borghese di tendenza liberale riformatrice, dunque si era bene accorto della necessità di intervenire per apportare al sistema politico vigente alcune rapide correzioni, in modo da garantire una certa sicurezza di fronte alle sempre più pressanti rivendicazioni rivoluzionarie della classe operaia. Classe che si stava ampliando e si dimostrava sempre più minacciosa. Alcune riforme si imponevano e bisognava intervenire dall'alto. Affinché la società fosse stabile, pensava, sarebbe stato necessario offrire alla classe dei lavoratori nuove forme di rito, una specie di religione secolarizzata. Questa religione profana mondiale doveva servire a neutralizzare l'energia politica delle masse. Così si andava trasformando lentamente l'ideale di Coubertin. Pensato come mezzo di educazione positiva ed efficace per le classi al potere, lo sport diventava un culto per imbrigliare le masse, evitando conflitti sociali.
Il sogno di una grande festa sportiva era magnifico, ma i primi Giochi Olimpici furono un fiasco completo. Non furono altro che piccole feste per compiacere la borghesia annoiata. I giochi di Atene, inoltre, furono abilmente usati dalla famiglia reale greca per accrescere il proprio prestigio e per fini politici interni. Non successe di meglio a Parigi, nel 1900, dove i giochi scomparvero nel caos dell'Esposizione internazionale.
Ciò nonostante, Coubertin non si perse d'animo, al contrario. Nel 1919, terminava la carneficina della Prima guerra mondiale, prese carta e penna e scrisse al Comitato internazionale olimpico: «Fatti recenti impongono nuove considerazioni. Lo sport è oramai l'ideale dei vincitori. È lo sport che ha permesso a Stati Uniti e Inghilterra le magnifiche improvvisazioni, e l'organizzazione di eserciti che non ci aspettavamo, prontissimi a prendere le armi. Dopo avere forgiato soldati tanto straordinari, l'atletismo ha saputo mantenere alto il loro valore nel combattimento, attenuando le loro sofferenze». Ecco come si presentava l'idea olimpica, nuda, fredda, e corrotta. Lo sport come mezzo per ingrossare le fila degli eserciti, un mezzo di educazione paramilitare.
Milioni di persone morte non erano dunque morte invano: avevano aperto le porte alla definitiva vittoria dello sport e al trionfo dei Giochi olimpici moderni. Si trattava di cinismo o ingenuità? Difficile saperlo. La lunga marcia verso Berlino cominciò allora. I Giochi, a poco a poco, diventarono sempre più importanti. Grandi spettacoli proposti alle masse alle quali si offriva un contesto pedagogico. «L'importante, in una Olimpiade, è partecipare, non vincere», si era lasciato sfuggire il vescovo della Pennsylvania, durante un sermone a Londra, nel 1908. Parole diventate storiche, un simbolo dell'idea stessa di olimpiade, parole che più tardi sarebbero state attribuite a Coubertin.
Un aforisma perfetto: «giocare senza ricompense». Il sogno di ogni imprenditore, l'importante non è il salario ma il diritto di lavorare. Dal sistema nascevano comunque degli eroi, dei vincitori. Allora la pedagogia si piegava alla scala sociale: chi vi era salito in cima, con sforzo e fatica, meritava di rimanerci. La vita è una piramide, chi vince in alto, i perdenti in basso. La vita è fatta così, è così che deve essere.
Berlino 1936. L'arrivo della fiaccola olimpica
Nel cuore del nazismo
Il culto sognato da Coubertin prendeva forma, ma raggiunse il suo apice a Berlino. Non fu per caso se proprio Leni Riefenstahl, che aveva filmato e organizzato il grande congresso di Norimberga nel 1934, fu incaricata di realizzare un film sulle olimpiadi. Il congresso del partito nazionalsocialista e la festa sportiva furono trattati alla stessa maniera. L'estetica, la funzione di sedurre le masse, l'ambizione politica tornavano a riproporsi. Non mancavano certo le ragioni per fare dei giochi di Berlino un successo politico. Il mondo era perplesso davanti a Hitler e al fascismo crescente. Strane voci circolavano sulla Germania, si diceva di ebrei perseguitati e di campi di concentramento. Pochi sapevano che Hitler aveva sistematicamente combattuto e distrutto il potente movimento sportivo operaio che contava circa un milione e mezzo di membri attivi fatti uccidere a centinaia, con l'accusa di avere preso parte a manifestazioni politiche. Il regime era isolato e non godeva di simpatie internazionali. Bisognava smentirli, dimostrare che si trattava di un sistema pacifico.
I giochi di inverno di Garmisch furono uno splendido inizio. Hitler si accompagnava a Sonja Henie come un cagnolino affettuoso, gli stendardi dell'antisemitismo erano stati ripiegati con cura, venne riservata una calorosa accoglienza alla stampa internazionale. Nel marzo del 1936, Hitler era entrato in Renania, nello stupore generale, ma nessuno si era preso la briga di fare quello che andava fatto. Poi ci furono i giochi d'inverno, infine Berlino. Una dimostrazione efficacissima, un rituale gigantesco che realizzava parte del sogno di Coubertin: lo sport come culto che legittima un regime, sulla base della sua efficacia. I giochi diedero grande prestigio a Hitler che ne fu lo Schirmherr. Il patrono ufficiale si ricopriva di modestia, come indica l'aneddoto che lo vuole rifiutarsi di stringere la mano a Jesse Owens. L'aneddoto è una menzogna, ma gira ancora. Ebbro di propaganda come era allora, Hitler sarebbe andato di corsa a stringere la mano a un nero, ebreo, comunista nato in Ucraina, se solo dei fotografi pronti a immortalarlo si fossero trovati nelle vicinanze. Poi tutto passò in fretta e Hitler mostrò il suo vero volto. Vi fu una certa notte, il 9 novembre del 1938, in cui decise di entrare a Vienna e presso i Sudati.
Morte di un ingenuo
Ma uno degli artefici dei giochi di Berlino non riuscì ad assistere a questi avvenimenti. Il 2 settembre 1937, il piccolo gentlemen di nome Pierre de Coubertin stava camminando nel parco Langrage a Ginevra. Fu visto portare le mani al petto e accasciarsi. La sua vita era stata lunga e piena di soddisfazioni. Credeva ancora all'ideale olimpico. Portò le mani al petto, si accasciò, era morto. I necrologi non permisero di capire se fosse un folle o un santo l'uomo morto in quel modo, anche se forse non si trattava che di un ingenuo che aveva voluto edificare la propria chiesa. I giochi, intanto, erano diventati un'opera d'arte mondiale. (...)
(Traduzione di Nicola Rossi)

“il manifesto” 15.08.2007

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