Nel 1984 Franco Fortini trascorre quasi un mese a Johannesburg. Quello che segue è il testo che servì da canovaccio al suo intervento negli studi milanesi di Radio Popolare, in una registrazione del 14 dicembre 1984, a cura di Bruna Miorelli, dedicata al suo soggiorno in Sudafrica. Il testo, ancora inedito e conservato nell’Archivio Franco Fortini dell' Università di Siena, venne pubblicato dal Corriere della Sera il 26 gennaio 2005 con il titolo Un mese a Johannesburg per concessione di Livia Lattes e del Centro studi Franco Fortini dell'Università di Siena. Io ne ripropongo uno stralcio. (S.L.L.)
Johannesburg |
Nel periodo compreso tra il mese di maggio e il mese di giugno 1984 ho trascorso 25 giorni a Johannesburg come «visiting professor», come professore invitato presso l' Università di Witswatersrand al dipartimento di Italianistica. Prima di accettare l' invito mi sono consultato con molti amici italiani e stranieri perché mi rendevo conto benissimo degli equivoci che la mia accettazione avrebbe potuto provocare. Mi sono deciso per il sì intanto per l'opinione della maggioranza, se non della totalità dei miei amici, poi finalmente perché mi interessava molto poter rendermi conto di persona di quanto conoscevo soltanto attraverso letture.
Sono arrivato nella grande città sudafricana e ho avuto l' immediata impressione di una modernità estrema, di una struttura abitativa e viaria di tipo americano, le grandissime autostrade percorse da un gran numero di auto ad alta velocità, i grattacieli luminosi nel cielo sempre azzurro dell' autunno sudafricano, il luccichio dei metalli, la assenza visibile di costruzioni fatiscenti o di baraccamenti, il tutto nella luce dei 1.700 metri di altezza.
Devo dire subito che l' impressione dominante, quella cioè che mi è rimasta per tutto il periodo, per tutti i 26 giorni che ho trascorso in questa città, è stata quella di un occultamento perfettamente riuscito dell' universo dei negri. La presenza negra in città non era maggiore di quella che si può avere ad esempio in una città come Londra. Le immense periferie come Soweto, come Alexandra, nelle quali si ammassano centinaia di migliaia di negri, sono praticamente invisibili. I miei ospiti, appartenenti tutti a famiglie estremamente progressiste e combattive, militanti per essere più precisi contro l'apartheid, hanno tuttavia silenziosamente evitato di accompagnarmi in questi quartieri sia perché sarebbe stato abbastanza difficile entrarvi, sia per non mettermi nella sgradevole condizione di chi va a visitare per dir così uno zoo umano, sia finalmente, ritengo, anche per una sorta di autodifesa psicologica.
I primi giorni ti domandi se questa omissione, questa mancanza di una parte della realtà non sia un' immaginazione tua, poi invece capisci che è qualcosa di costitutivo della realtà stessa di questo paese. Non c' è insomma persona tra i colleghi e gli studenti ad esempio, che in forme, in modi spesso impercettibili non faccia allusione alla «cosa», cioè all'apartheid. E di fronte allo splendore della natura, di fronte alla evidente straordinaria ricchezza del paese ecco che ti trovi a pensare: «L'inferno è la forma più perfetta di paradiso». Non potete immaginare che strano effetto faccia, in questo contesto, commentare un canto della Divina Commedia o discorrere delle ultime mode filosofiche nelle università italiane. La grandissima maggioranza dei negri lavora nelle miniere, invisibili alla città. Ritornano la sera in quei loro enormi agglomerati come Soweto, da cui non si esce senza autorizzazione di lavoro e dove nella maggior parte delle case non c' è ancora la corrente elettrica, dove non esistono organizzazioni sindacali o culturali, né mutue né nulla. Dove le serate sono solo per l'alcool. In compenso sotto le pensiline in città i negri sono stati recentemente autorizzati ad aspettare i loro autobus insieme ai bianchi, ma i «loro» autobus. Su quelli per bianchi non possono salire, naturalmente. C'è e ben visibile una borghesia nera, impiegati; anche studenti. Ti dicono che quasi a ogni livello della vita sociale ci sono alcuni negri messi lì per «campione», con l'incarico di provare con la loro presenza la latitudine mentale e politica dei bianchi. Anche ad alcune delle mie lezioni veniva un giovane negro che intendeva l'italiano e non so bene perché, o forse lo so troppo bene, sedeva isolato da alcune file di sedie vuote in fondo a sinistra. Gli studenti che seguivano le mie lezioni erano in prevalenza figli di italiani immigrati, oltre 70.000 in tutto il Sudafrica. Gente che ha lavorato duro per arrivare a uno stato di benessere quale certo non avrebbero potuto raggiungere quasi mai in Italia, legati alla patria dalla straziante mitologia della lontananza, in lacrime alla vista del tricolore, fedeli alle memorie. (...)
Era la prima domenica di giugno, viaggiavamo per centinaia di chilometri sotto la luce abbagliante, in certi immensi paesaggi desertici della zona che vide le battaglie e le stragi della guerra anglo-boera alla fine del secolo scorso, quando, con una freccia che indicava il nulla, è comparso al lato della strada un cartello bianco rosso e verde con su scritto, in italiano, «Festa campestre». Erano, credo, i minatori di un villaggio vicino che celebravano la ricorrenza della nostra Repubblica. Si capisce anche che il fondo di queste famiglie di immigrati nostri sia di adesione ai modelli afrikaneers o anglosassoni e quindi spesso più razzisti dei razzisti. Per buona parte delle mogli di questi italiani i negri sono subumani o animali, anche se va detto che la chiesa cattolica è incomparabilmente più aperta di quanto non lo siano le chiese protestanti tradizionaliste e in particolare quelle che si situano all'estrema destra vale a dire le chiese calviniste di origine olandese. (...)
L' anno scorso l' Università di Witswatersrand (che vuol dire «collina dell'acqua bianca» e l' inno latino - figurarsi! - dell' università parla di «aqua alba») decretò solennemente la laurea ad honorem alla scrittrice Nadine Gordimer, alcuni dei cui libri sono vietati dal governo sudafricano. Il testo, letto dal vicerettore, era tutto acceso di vibranti toni progressisti. Questo è l' aspetto «democratico» del Sudafrica che più intriga lo straniero. Lo straniero è anche ingannato dal fatto che la più parte dei colorati che egli vede, ad esempio, all' università o negli uffici o nei ristoranti gli sembrano «negri» mentre invece sono indiani di pelle molto scura (ce ne sono quasi due milioni) o meticci, ossia appartenenti a quelle due etnie che la politica bianca ha separato astutamente da quella dei negri, dando ai primi una propria assemblea che ai negri è stata negata. Esiste naturalmente tutta una conflittualità economica, ideologica e culturale fra questi diversi strati di colorati anche se, non dimentichiamolo, ai 5 o 6 milioni di bianchi, ai 2 o 3, credo di meticci e ai 2 circa di indiani si oppongono ben 22 milioni di negri deprivati di tutti i diritti democratici, di tutti i diritti di rappresentanza politica. Insomma si conferma lì una cosa abbastanza interessante che vale per noi, e cioè che lo straniero è sensibile, arrivando, a disuguaglianze e sopraffazioni che invece per gli abitanti del luogo rientrano nella assoluta normalità, e questo è un invito a vedere il nostro stesso paese, l' Italia voglio dire, con occhi di straniero se ne vogliamo afferrare l' immagine reale.
Oceano Indiano, Durban. Sulle onde che si rompono su una spiaggia sterminata corrono sui loro surf degli sportivi, degli uomini minuscoli e solo quando vedi l'uomo sull'onda ti rendi conto di quanto immense siano queste onde oceaniche. Sono giovanotti e ragazze bianchi forti allegri di taglie alte, appartenenti a una gioventù straordinariamente sportiva; mentre solo a distanza di mezzo chilometro o più alcuni negri ben attrezzati di impermeabili colorati si danno alla pesca. Sui prati davanti ai grandi residence siedono le negre paffute scalze e chiacchierano. Una famiglia indiana tiene una ricca bancarella di frutta e i bianchi ne acquistano; non lo farebbero con dei negri. In uno squallido Wimpy dove pranzano con mediocrissimi cibi alcune famiglie piccolo-borghesi bianche posso rilevare che il proprietario e il cassiere sono indiscutibilmente indiani, i cuochi sono meticci, il personale che serve al tavolo è negro e i clienti sono bianchi. Tutto, tutto quello che vedi vive grazie al lavoro sottopagato nelle miniere ad esempio le miniere d' oro a due, a tre, a più chilometri sotto terra con trenta e più gradi di calore dove, e questa è la prova della straordinaria vitalità e astuzia del capitale, non sono neanche i negri del Sudafrica a lavorare bensì giovani e giovanissimi neri che affluiscono dalle boscaglie di oltre le frontiere da paesi ancora più poveri e primitivi e che dopo una specie di corso accelerato vengono mandati a sputare i polmoni sottoterra. Ma oggi è gran giorno in tutto il Sudafrica. Da sessant' anni si corre, in memoria di un episodio della Prima Guerra Mondiale, una maratona gigante nello stato del Natal, da Petersmaritzburg a Durban. Tutta l' Unione, con una gioventù fanaticamente sportiva, vi è coinvolta, da 15 giorni i giornali non fanno che parlarne e la macchina pubblicitaria lavora al parossismo, gli iscritti a questa corsa di novanta chilometri sono 8 mila, 7.500 prenderanno il via, 4 mila arriveranno entro le sei del pomeriggio in uno stadio di entusiasmo inesausto. Da ogni parte di questo subcontinente convergono decine di migliaia di spettatori per una colossale kermesse patriottica. Si può dire che non ci sia famiglia sudafricana che in qualche modo non sia toccata dall' evento. Partecipano bianchi meticci indiani negri; non ci sono limiti di età e di sesso. Numerose le donne. Alcuni sono ultrasessantenni che resistono a correre per novanta chilometri. Quest' anno un negro è arrivato quarto, abbracciato dal vincitore, un giovanotto dell' università di Johannesburg, una specie di eroe nazionale perché ha vinto per la quarta volta percorrendo in meno di 5 ore e mezzo 90 chilometri di corsa sull' asfalto della strada, su e giù per le splendide e verdissime colline di boschi tropicali che calano verso l' oceano di Durban. Dicono i maligni che a fare uso del servizio di massaggi disposto lungo il percorso e esercitato da bellissime ragazze in short da majorettes si giovino soprattutto i corridori negri, felici di un contatto che altrimenti cadrebbe sotto i rigori della legge (si pratica ancora d'autorità, sembra, l' ispezione vaginale alla donna che si suppone abbia avuto rapporto con un uomo di razza proibita). Ma le misere popolazioni delle boscaglie, resti di quello che fu il regno Zulu distrutto a fucilate dagli inglesi, pare si addensino lungo i primi chilometri del percorso. I concorrenti partono da 700 metri di altezza con temperature quasi intorno allo zero, coperti quindi di indumenti caldi, che ancora è buio. Poi, a poco a poco si liberano di giubbe, di maglie, di berretti, di guanti, sotto il sole che picchia sempre più forte, che gettano ai lati della strada per la gioia e per la rivendita dei sottouomini. (...)
Sì, è stata per me certamente, questa di Johannesburg, e anche questa parentesi sportiva di Durban, un' esperienza conturbante, che mi ha lasciato più interrogativi che risposte. In una certa misura rimane come sospesa, come incomprensibile. Un Paese meraviglioso davanti al quale ci si domanda se siamo di fronte a un episodio storico, ad una fase storica che è una fine, o se è invece un inizio. Devo dire purtroppo che non ha affatto i caratteri della fine, non si può dire che siamo in presenza di una situazione ancora colonialista, e in questo senso ritengo che la lotta della pubblica opinione e delle istituzioni internazionali finisca in qualche modo col mascherare la vera natura di questo grande stato sudafricano, vale a dire che anche qualora si giungesse alla soppressione delle forme più assurde e barbariche e fasciste di razzismo, non di meno il sistema complessivo resterebbe a testimoniare di una situazione estremamente moderna. Noi vediamo nel Sudafrica, lo vediamo immediatamente sotto i nostri occhi, quella situazione, quel rapporto tra dominatori e dominati, tra potenti e servi che nel resto del mondo si dà spesso non all' interno del medesimo stato ma tra uno stato e l' altro, tra l' impero e la periferia.
Si chiama Bruna Miorelli la giornalista di Radio Popolare, non Morelli.
RispondiEliminaGrazie. Correggo
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